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22 Luglio 2022
Quando il dialogo diventa un incontro
Quando la guerra scava trincee ideologiche e cancella il terreno dove potersi incontrare, è ancora possibile un dialogo che non sia un calcolo ma un reale incontro? E se sì, a quali condizioni? Una serata alla Biblioteca dello Spirito di Mosca ha buttato i cuori oltre l’ostacolo.
Se c’è una parola vilipesa oggi, in tutto il mondo (basta pensare, per non allontanarci troppo, a ciò che è successo in queste ore nella politica italiana), è proprio il «dialogo» che papa Francesco invoca per trovare una via d’uscita alla «terza guerra mondiale a pezzi» che si sta combattendo, e un antidoto agli innumerevoli interessi di parte che la alimentano. Per restringere il campo d’osservazione alla Russia, qui le leggi varate successivamente all’inizio dell’«operazione speciale» in Ucraina, l’atmosfera di ostilità, sospetto e paura instauratasi all’interno della società civile, oltre a chiudere violentemente la bocca ad ogni forma di «dissenso», a impedire una libera circolazione di fatti e informazioni, tendono a radicalizzare le posizioni, a scavare trincee fra coloro che pensano diversamente, a mettere in moto meccanismi di aggressività e violenza che impediscono la possibilità di un sereno confronto con l’altro.
Proprio un tentativo di ricominciare a dialogare è stato l’incontro svoltosi il 4 luglio scorso alla «Biblioteca dello spirito» tra Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, e Vladimir Legojda, presidente del Dipartimento sinodale per i rapporti tra Chiesa e società; un incontro che ha preso spunto dal volume-intervista recentemente scritto a quattro mani da Legojda ed Elena Jakovleva, Tempo di una fede matura.
Infatti, al di là dei temi affrontati, questo incontro è nato innanzitutto come una scommessa sulla possibilità di non rinunciare ad essere aperti, a dar credito al proprio interlocutore per la ricchezza che l’altro rappresenta sempre e comunque, indipendentemente dalle idee che può avere o dall’opinione pregressa che possiamo averne. Gli interlocutori prescelti per questo dialogo potevano rappresentare, sotto alcuni aspetti, degli antagonisti: monsignor Pezzi ha sempre espresso una posizione molto sobria nei confronti del conflitto ucraino, ben lontana dalle «benedizioni» pronunciate da altre comunità religiose in Russia, e sulle orme delle accorate implorazioni di pace di papa Francesco ha ripetutamente richiamato alla misericordia e al perdono; Legojda, dal canto suo, nelle vesti di portavoce del patriarcato di Mosca, si è trovato sovente nell’imbarazzante posizione di dover giustificare (al di là di quella che potrebbe essere la sua posizione personale) gli appelli alla «guerra santa» del patriarca Kirill.
In questa situazione è possibile un dialogo che non sia un compromesso, una formalità, ma un reale incontro? E se sì, a quali condizioni? L’idea di un dialogo che non si esaurisca in un contradditorio verbale è sempre stata uno dei punti di riferimento nell’attività culturale della «Biblioteca dello spirito».
Oggi in Russia, in un contesto in cui vediamo come le posizioni sul conflitto in atto abbiano il potere di far saltare rapporti familiari e troncare lunghe amicizie, è prioritario – ha ribadito più volte Jean-François Thiry, direttore della «Biblioteca» – ancor prima di far chiarezza e mettere i «puntini sulle i» rispetto ai singoli problemi, creare un luogo di reale ascolto e dialogo. E questo può avvenire nella misura in cui si ha il coraggio di condividere (e l’incontro fra Legojda e Pezzi lo conferma) la consapevolezza che non siamo noi a costruire l’unità, di condividere le domande prima ancora che le risposte, e di offrire la propria esperienza in un cammino di ricerca comune. Proprio in quest’ottica, introducendo l’incontro, Thiry ha proposto un affondo sui «temi che ci interpellano oggi, e cioè di come la fede possa conservarsi, diffondersi e radicarsi nella nostra vita e nella nostra società», facendo appello all’esperienza pastorale di monsignor Pezzi e all’esperienza di insegnamento universitario di Legojda, al suo rapporto con le giovani generazioni, al suo lavoro alla rivista «Tommaso», da lui fondata nel 1996 proprio con l’idea di dialogare con chi è nel dubbio.
Il dialogo che è seguito ha tracciato varie piste di un possibile lavoro comune, a partire dalla domanda, suggerita dal titolo del libro presentato: che cos’è una «fede adulta»? Non è una fede in contrapposizione all’atteggiamento evangelico dell’«infanzia spirituale» – ha sottolineato Legojda – si tratta piuttosto di un processo paragonabile al cammino del bambino, che idealizza i propri genitori ma con il passare del tempo ne scorge limiti e difetti, «senza però che questo si ripercuota sul suo affetto per essi». Anche noi – ha proseguito – «nello slancio di neofiti ritenevamo che la Chiesa fosse un luogo ideale», ma crescendo, acquisendo una fede adulta «cominciamo a comprendere che umanamente la Chiesa può avere molte carenze, eppure Cristo rimane sempre lo stesso». Fedeltà, umiltà e responsabilità dentro la Chiesa, dunque. Monsignor Pezzi ha messo in risalto un altro aspetto della fede «matura», osservando che
la certezza nel destino finale di misericordia che attende le singole vite umane e la storia nella sua globalità consente di entrare in un rapporto positivo con il mondo, di «reggere l’urto del colpo che la Chiesa e la fede stessa ricevono dal mondo» senza timore di esserne schiacciate.
Nelle tesi espresse da entrambi gli interlocutori, la Chiesa è stata più volte evocata – in tutti i suoi limiti umani – come il luogo del rapporto personale con Cristo. «La sostanza del cristianesimo resta immutata, anche se cambia il contesto in cui il cristiano si muove: oggi, ad esempio, siamo tutti coinvolti nella rete virtuale, ma il cristiano ha tutti i criteri per affrontare questa nuova situazione – ha fatto presente Legojda. – La Chiesa non è volta al passato, non ha l’idea che sia esistita un’“età dell’oro” ormai tramontata. E oggi, nel nuovo contesto, è particolarmente importante educarci al rispetto per chi ha idee diverse dalle nostre e una diversa valutazione dei fatti, ricordando che si tratta di una virtù cristiana». Monsignor Pezzi ha messo a fuoco il compito della Chiesa nelle diverse epoche come «la continuazione della presenza di Cristo nella storia». Ma per far questo, ha precisato, il Salvatore non si è preoccupato di scegliere uomini ideali: «Ha scelto Pietro, che umanamente non era il meglio che ci fosse, per non parlare degli altri – uomini collerici, che non escludevano la violenza, che ambivano a primeggiare e così via. Ma Cristo ha scelto proprio questa modalità, identificando la propria presenza con l’unità fra questi uomini e coloro che sarebbero venuti dopo di loro».
Un’altra parola risuonata nel corso della serata è stata «missione»: l’esperienza di rapporto con le giovani generazioni dimostra a Legojda che non c’è da temere la frattura generazionale che sovente balza tanto evidente, perché «l’annuncio di Cristo non si lascia costringere entro schemi intellettuali, ma si basa sulla continua novità di esperienza della Rivelazione cristiana». Gli ha fatto eco Pezzi: «Il problema è come trasmettere una tradizione viva. Charles Peguy, un poeta che amo moltissimo, dice che Cristo ci ha consegnato delle parole vive, che non si possono chiudere nel cassetto ma vanno trasmesse vive, altrimenti spariscono».
L’equivoco è pensare di poter «sostituire la testimonianza di Cristo con dei valori, senza comprendere che i valori non esistono in sé o “dopo Cristo”, ma scaturiscono dalla presenza viva di Cristo».
Giungere a incontrare il proprio interlocutore nella sua umanità, a condividere con lui la propria esperienza senza la pretesa di convincerlo ma lasciandogli la libertà di percorrere il proprio cammino – questo, che in fondo è il metodo usato da Dio con l’umanità, oggi sembra essere una risorsa fondamentale in un momento tanto doloroso per la società e la Chiesa russa. È stato un cammino di maturazione per più di un amico, in questi mesi, e resta una strada comune ancora aperta per molti. Sergej Fudel’, uno dei giusti del XX secolo, passato attraverso il lager e la deportazione, scriveva al figlio – appartenente alla generazione nata e cresciuta in epoca sovietica – che «non si può “insegnare” alla gente, bisogna piuttosto nutrirla, corroborarla fisicamente e spiritualmente». Oggi di magnanimità, di questa misericordia la Russia e tutto il mondo hanno più che mai bisogno. All’infuori di questo abbraccio, di questa mano tesa a porgere il pane dell’amicizia, ogni valore e ogni principio si trasformano in menzogna e violenza.
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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