21 Settembre 2020

Quel che resta dell’uomo e della sua dignità dopo la pandemia

Francesco Braschi

La società civile e la Chiesa sono stati segnati duramente dalla pandemia, che ha mostrato l’inconsistenza del loro tessuto ideale. Cerchiamo i colpevoli o lavoriamo per il cambiamento?

Non è possibile, se si vuole parlare delle sfide che l’epoca della post-verità pone alla dignità della persona, non guardare quanto è accaduto negli ultimi mesi, in relazione alla pandemia da CoViD-19. In realtà si tratta di una situazione ancora in evoluzione e tutt’altro che conclusa, ma questo fatto non impedisce di cogliere già alcune linee di tendenza che mostrano senza alcun dubbio come questo evento di carattere sanitario stia generando conseguenze di enorme portata per quanto riguarda la situazione della popolazione mondiale.

Possiamo affermare che il virus ha operato come un catalizzatore, ovvero ha accelerato e amplificato processi sociali ed economici già in atto, facendo emergere tutte le fragilità delle istituzioni nazionali, continentali e globali.

È interessante considerare ciò che emerge dall’analisi delle eccezioni alle regole di chiusura e distanziamento con cui è stata gestita la fase detta di lockdown, ovvero di permanenza in casa. L’analisi delle FAQ presenti sul sito del governo mostra infatti che hanno fin da subito avuto attenzione esigenze come la cura degli animali domestici (la passeggiata con il cane), l’esigenza di fare sport e jogging (permessi «nelle vicinanze della propria abitazione», senza restrizioni), la necessità di acquistare sigarette e giornali. Nel giro di pochi giorni dopo la proclamazione del lockdown, inoltre, sia i canali della Televisione di Stato, sia quelli privati, hanno iniziato a potenziare la programmazione di carattere didattico, ma soprattutto quella di carattere ricreativo (serial, telefilm, intrattenimento), e le principali compagnie telefoniche hanno offerto Gigabyte di traffico internet gratuito o a prezzi ridotti, dei quali solo una parte è stata utilizzata per la didattica a distanza, mentre hanno registrato incrementi notevolissimi nel numero di abbonati portali come Netflix o social networks come TikTok, ampiamente utilizzati durante i mesi di marzo-maggio.

Non rientra invece nei bisogni primari della persona, secondo il governo italiano, la professione e la pratica della fede religiosa: al divieto di qualsiasi attività comunitaria di tipo religioso e liturgico non si è aggiunta – almeno formalmente – la chiusura delle chiese o degli altri luoghi di culto; tuttavia, la possibilità di frequentarle solo per la preghiera personale era soggetta a condizioni limitative:

il protrarsi della situazione di pandemia, soprattutto dal mese di maggio ad ora, ha fatto emergere una frammentazione sempre più marcata della società italiana Questo è il sintomo più preoccupante di una povertà di autocoscienza sempre più marcata e perfettamente delineata dai provvedimenti del governo (nonché, purtroppo, condivisa dai suoi componenti), che hanno mirato innanzitutto a rispondere all’emergenza tratteggiando e favorendo l’affermarsi di una figura di uomo sazio, distratto, intrattenuto e “divertito” (nel senso pascaliano del termine), ma il più possibile ottusamente distaccato dalla realtà della vita (e della morte) circostante, grazie al filtro dei social media, divenuti sempre più la forma “asettica” o la “comfort zone” elettronica capace di «proteggerci dagli incontri col semplice espediente di eliminare l’alterità degli altri dalla nostra vista, dal nostro udito e dalla nostra preoccupazione»,

basilica san pietro uomo pandemia

(M. Verga – Pixabay).

La Chiesa di fronte allo Stato: verso l’insignificanza?

Davanti alle misure conseguenti alla scelta di imporre il lockdown e, in particolare, alle disposizioni restrittive relative alle cerimonie religiose e perfino all’assistenza spirituale ai moribondi e ai defunti, l’atteggiamento della Chiesa italiana si è caratterizzato per una immediata e piena adesione a quanto deciso dal governo, nello spirito di una leale collaborazione e di un impegno a fare di tutto per risparmiare più vite umane possibile.

Questo quadro per alcuni aspetti idilliaco dei rapporti tra Stato e Chiesa è sembrato venire meno solo in un’occasione, il 26 aprile 2020, quando nel presentare il Decreto relativo alla cosiddetta «fase 2», la riapertura di molte attività dopo il lockdown, il premier Conte confermava il mantenimento della sospensione delle celebrazioni con il popolo. Alle sue dichiarazioni faceva eco, dopo qualche ora, un duro comunicato della CEI. Eppure il governo non cambiò in nulla la propria posizione, limitandosi a prendere atto della nota della CEI e assicurando di lavorare alla riapertura delle chiese, ma confermando per il momento il permanere dei divieti già vigenti.

Vale la pena di ricordare che, nella santa messa del 28 aprile, papa Francesco iniziò la celebrazione con queste parole: «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». Furono in molti a vedere in queste parole una sorta di «smentita» della dura nota dei vescovi e un invito a non ostacolare l’opera del governo italiano, oppure – ed è forse l’ipotesi più benevola – una specie di «gioco delle parti» tra CEI e Vaticano, nella ricerca di una strategia volta ad ottenere il più possibile la realizzazione dei propri scopi.

A nostro avviso queste spiegazioni sono ancora molto superficiali, e non colgono la vera natura di quanto stava – e sta ancora – accadendo. Il comunicato dei vescovi non stupì, infatti, per l’inattesa durezza dei toni, ma per il fatto stesso di essere stato scritto e divulgato. La ripresa delle messe con il popolo non veniva infatti giudicata dal governo un’esigenza essenziale, dal momento che le richieste formulate dai vescovi non trovavano un riscontro massiccio nell’opinione pubblica che – anzi – sembrava aver trovato nelle celebrazioni in streaming una modalità pienamente soddisfacente il proprio bisogno religioso, di fatto incoraggiata anche da molti esponenti del clero sia basso che alto. In altre parole,

la pandemia ha fortemente accelerato e impietosamente rivelato agli occhi di tutti un processo di disaffezione dalla pratica della fede cattolica e di fragilità del tessuto connettivo delle comunità parrocchiali che era in atto già da molti anni, ma che probabilmente ancora non era stato colto in tutta la sua portata da un’ampia porzione dei fedeli e, soprattutto, dei pastori.

Molto più consapevole della gravità della situazione sembra invece papa Francesco, probabilmente grazie alla sua esperienza sudamericana e a uno sguardo globale che da tempo ha smesso di illudersi circa la persistenza di un «cristianesimo tradizionale» legato a forme ecclesiastiche ormai desuete: una narrazione inattuale alla quale, invece, pare ancora legata un’ampia parte del clero e una porzione – più esigua, ma reale – di fedeli. Tra i vari interventi, ci sembra particolarmente importante la meditazione proposta il 27 marzo – nel pieno della pandemia in Europa occidentale – durante la preghiera tenuta in piazza San Pietro.
In quell’occasione papa Francesco ha offerto una lettura della situazione che si configura come un vero e proprio esercizio di «teologia della storia», che non si è soffermato alla ricerca dei «colpevoli» della pandemia, ma ne ha individuato le ragioni più profonde nella perdita, da parte degli uomini, della consapevolezza della loro natura e della loro collocazione nell’ordine della creazione:

«In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».

Ma la realtà, a lungo trascurata perché sostituita dalle rappresentazioni parziali e soggettive assunte come un assoluto, si è ripresa la scena, rimettendo ogni uomo di fronte alla propria fragilità strutturale, riflesso della sua condizione di creatura chiamata alla vita in un dialogo con il Mistero che non può interrompersi, senza che venga meno la stessa persona umana.

Proprio per questo, l’unica via possibile di salvezza sta nel riannodare i fili del rapporto con Dio, con il prossimo, con il creato, riconoscendo l’irriducibile oggettività della realtà, e dunque la necessità di un giudizio che non sfugga alla ricerca della verità.

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Francesco Braschi

Sacerdote, dottore in Teologia e Scienze Patristiche, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. È consultore della Congregazione del Rito ambrosiano e docente a contratto di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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