22 Aprile 2024

Ho ricominciato da zero in Montenegro

Vladimir Šmelëv

Un giovane manager russo – uno tra i tanti – ha deciso di lasciare il suo paese prima ancora della guerra, per ricostruire la sua vita in Europa. Cerchiamo di capire le ragioni che lo hanno spinto a un taglio così radicale, e in cosa spera per il futuro. (Intervista di M. Dell’Asta).

Vladimir, lei cosa faceva a Mosca prima di lasciare il paese?
Ho un curriculum lavorativo molto vario. Lo ricostruisco a ritroso: dal 2018 fino al 2021 per tre anni sono stato vicedirettore della Scuola Letovo, nella Nuova Mosca, un progetto ambizioso di scuola privata, in pratica un istituto per studenti d’eccellenza. Ci ho lavorato sin dall’inizio, è nata anche grazie ai miei sforzi.

Che tipo di scuola era?
Una scuola triennale, di alto livello dal punto di vista del modello formativo; era ai primi posti nella classifica delle scuole che insegnano in base ai programmi del «Baccellierato internazionale». Il successo della scuola dipendeva in gran parte dal sostegno dato ai ragazzi superdotati, in modo da aprir loro l’accesso alle migliori università mondiali. Naturalmente, l’idea stessa su cui si basava la scuola non prevedeva l’isolamento attuale della Russia.

Prima ancora, dal 2011 avevo lavorato sei anni e mezzo come prorettore dell’Università umanistica ortodossa San Tichon, di Mosca. Diciamo che mi occupavo dei vari progetti, ma in realtà per me era importante il loro contenuto quindi si può dire che il mio lavoro si collocava all’intersezione tra contenuti e gestione. Mi potrei definire un Education Manager, e non un insegnante né uno studioso; il mio compito è curare che i processi avvengano.

Naturalmente non sarei andato a lavorare per un’università ortodossa se non avessi condiviso l’ispirazione cristiana, tuttavia, i miei compiti erano più di natura tecnica, curavo lo sviluppo dell’università come organizzazione, quindi le questioni finanziarie, il fundraising, management strategico, innovazione eccetera.

Ho ricominciato da zero in Montenegro

Vladimir Šmelëv interviene a una conferenza sulle sfide e le opportunità dei processi educativi.

Ad un certo punto ci siamo trasferiti in una nuova sede, e il mio compito è stato organizzare eventi culturali per un pubblico più vasto, non solo per gli studenti, in modo da aprire l’università al mondo esterno. Organizzavamo concerti, conferenze. Nella mia attività quotidiana non mi incrociavo col processo educativo in sé. Tra l’altro, proprio in quel periodo abbiamo celebrato – e sono stato una locomotiva dell’evento – i dieci anni di collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, assieme al defunto padre Georgij Orechanov. Ricordo che, per l’occasione, venne a Mosca una grossa delegazione dalla Cattolica, era il 2017.

Legato a questo fatto ce n’è un altro importante per la mia vita: nel quadro della collaborazione con la Cattolica, per un anno ho seguito un master in Strategic Management for Global Business, venivo a Milano ogni mese e mezzo per dare gli esami.

Prima dell’Università San Tichon ho lavorato per tre anni (2008-2011) come vicedirettore al Museo Politecnico di Mosca, e anche lì mi sono occupato di sviluppo. Si tratta del più grosso museo tecnico-scientifico del nostro paese, ed era necessario trasformarlo radicalmente perché era ancora organizzato secondo i vecchi stereotipi sovietici mentre si voleva aprirlo al mondo, farne un centro di cultura, di conferenze, eventi, master class

Uno dei nodi da affrontare era la parte espositiva, problema che non sono riuscito a risolvere e che da allora non è stato ancora risolto; il museo è chiuso ancor oggi (dal 2011!). Tra l’altro, si chiama Museo Politecnico ma in realtà non è legato solo alle scienze naturali e alla tecnica, perché storicamente è stato un centro di cultura umanistica importante per la Russia: all’inizio del XX secolo era il luogo dove i poeti del Secolo d’argento leggevano i propri versi davanti a folle strabocchevoli, e dove si tenevano pubbliche dispute teologiche. In seguito, negli anni ’60, è stato luogo di riunione dei rappresentanti della cultura libera.

Ho raccontato queste cose, che possono sembrare episodi isolati della mia vita, perché in realtà sono strettamente legati da un unico filo, che è quello del dialogo, dell’educazione in senso ampio, dell’importanza di comunicare.

Prima ancora di entrare al Museo Politecnico, ero stato un giovane impegnato nel sociale in maniera esuberante. Sono stato uno degli organizzatori dei movimenti studenteschi; per quattro anni sono stato consigliere comunale di un rione di Mosca. Allora questo mi sembrava molto importante – anche ora lo è, però allora era possibile incidere attraverso le istituzioni sul cambiamento della società, poi non lo è stato più. Ne ho preso atto tra la fine degli anni ’90 e il 2000.
In conclusione, dopo che nel 2008 è finito il mio mandato di consigliere non sono più tornato in politica, ero molto deluso. Da una parte è una via importante verso il successo (e io nel complesso mi ritengo una persona di successo), ma dall’altra mi ha fatto ricredere sulla possibilità di poter cambiare il sistema dal di dentro, come avevamo creduto da giovani, quando ci sentivamo la prima generazione libera dopo la caduta del comunismo, la promessa della nuova Russia. Il nostro movimento si chiamava proprio così: Prima generazione libera.

Ho ricominciato da zero

Vladimir Šmelëv a Budva con alcuni membri dello staff dell’Adriatic College. (Facebook)

Qui siamo arrivati a un punto cruciale: quali episodi, quali delusioni l’hanno portata a decidere di andarsene?
Ad essere onesti, l’idea che avevamo di far uscire il paese dalla crisi, di impostare una nuova agenda di sviluppo, è finita in un vicolo cieco. A questo si aggiunge la disillusione degli ultimi anni quando ho capito che non solo l’impegno politico era inutile, ma era anche impossibile cercare di costruire qualcosa tramite l’educazione e la cultura.
Avevo pensato che in questo modo avrei potuto comunque contribuire a cambiare la mentalità, magari non direttamente ma attraverso una specie di soft power, in modo graduale. E anche qui è stata una sconfitta.

Uno degli episodi cruciali, forse, è stato il mio ultimo lavoro alla Scuola Letovo, dove tutto si basava sull’idea di un mondo aperto, globale, sul fatto di aiutare i ragazzi più dotati a realizzarsi in qualsiasi parte del mondo, a formarsi negli istituti migliori in Inghilterra, America, Europa, ad essere insomma dei «giocatori globali». Ma questo programma è in linea di collisione con la chiusura e l’isolazionismo attuali della Russia. Per ora i diplomati della nostra scuola continuano ad iscriversi a università estere, ma il processo si fa sempre più difficile; i miei colleghi – ormai senza di me – fanno sforzi enormi per mandare gli studenti con l’aereo in Armenia o Kazachstan a sostenere degli esami che vengano riconosciuti anche in America o in Europa. È una strada in salita…

Queste alchimie funzionano?
Queste operazioni sono oggettivamente una cosa buona per la società russa, ma per farle bisogna lottare con le unghie e con i denti, remare controcorrente. E questo stanca. E poi si rimane delusi, e si insinua uno stupido sentimento, sbagliato e infantile quanto si vuole, di offesa nei confronti del nostro paese.
Certo parlare del «paese» è un’astrazione; come ha detto giustamente padre Kordočkin, non ci si può offendere con la lavatrice, e tuttavia, si ha l’impressione di fare tanto per la società, e questa invece ti oppone resistenza in tutti i modi, quasi a dire: non vogliamo migliorare, non vogliamo diventare più colti, stare meglio, vogliamo tornare nelle caverne ed essere dei selvaggi primitivi. Questo sentimento è veramente pesante.

È stata una sua scelta autonoma quella di andarsene?
Una scelta autonoma e preventiva. Direi così: ho ricevuto un invito dal Montenegro, da una piccola scuola privata nella città di Budva. Si tratta di una scuola di lingua russa, in Montenegro, che voleva ingrandirsi e per questo mi ha chiesto di gestire lo sviluppo.
Certo, a considerare il mercato del lavoro, a prescindere dal contesto politico e dal periodo storico, è chiaro che il progetto era infinitamente meno interessante e ambizioso della Scuola Letovo di Mosca. Era un autentico downshifting. Ed io ho accettato con entusiasmo la proposta.

È stato tutto molto veloce: ne abbiamo discusso con mia moglie e i figli ed eravamo tutti d’accordo, l’abbiamo visto come un modo elegante e corretto di uscire dal gioco prima di essere buttati fuori. Perché questa era la nostra sensazione dominante… Ne avevamo già parlato molte volte.

Ad essere franco, non so se la cosa mi ha toccato subito nell’intimo, però la sensazione di un’oscurità montante ce l’avevo da parecchi anni, non è iniziato tutto con la guerra ma molto prima.

Negli ultimi tempi prima di partire, le notizie della tivù, dei giornali, di internet, di amici e colleghi erano sempre e solo negative… Non c’era equilibrio fra le notizie buone e quelle cattive.

Dunque, è stato bene andarsene?
È una questione personale di scelta, non può esserci nessun tipo di giudizio. Come io non giudico nessuno. Apprezzo tantissimo quelli che sono rimasti in Russa e cercano di fare cose costruttive; penso sia una cosa molto buona.
Per me, forse, ha giocato la mia esperienza gestionale, lo stress del management strategico: sono portato a vedere innanzitutto i rischi, a gestire i rischi, e mi sono reso conto che erano superiori alle mie forze. Il rischio più grave era quello di finire in prigione, quello minore era il conformismo, ed io mi trovavo a metà tra i due estremi, cercavo di non tradire me stesso e insieme di non finire dentro, senza fare violenza alla mia coscienza. Era una strada ardua che non era fatta per me. Il che non vuol dire che sia così per tutti, ma che era così per me, per la mia famiglia.

Per questo, in quel momento, il modo migliore di preservare me stesso mi è sembrato, e ancora mi sembra, quello di uscire del tutto dal gioco. Questo è molto importante perché oggi tra noi russi si discute molto tra chi è partito e chi è rimasto, ma non c’è una ricetta universale.

Così, nell’agosto del 2021 siamo partiti per Budva. Un anno e mezzo prima dell’inizio della guerra: è stato davvero provvidenziale, se così posso dire.

Cosa comporta il lavoro nella nuova scuola in Montenegro: l’educazione, la conservazione della «russicità», cos’altro?
Non posso rispondere in due parole; si tratta di una faccenda lunga e complessa. Dico in breve cosa facciamo, e poi perché lo facciamo. In questi due anni abbiamo fatto molto, anche se non penso affatto che sia stato soltanto grazie alle mie energie, ma con l’aiuto di Dio.

Poi è successo che a causa degli eventi catastrofici della guerra c’è stato un grosso afflusso di russofoni in Montenegro, il che ci ha richiesto una risposta immediata. Per questo abbiamo aperto una rete di progetti ora in via di sviluppo. Sostanzialmente è stata la reazione a questa immigrazione di massa: oggi abbiamo una rete di tre scuole in tre città del Montenegro.

Inoltre, abbiamo appena inaugurato un programma completo di baccellierato internazionale [equivalente alla nostra laurea triennale – ndr] come facoltà di Liberal Arts and Sciences. La facoltà è già regolarmente registrata ed è in attesa di essere accreditata, ma già molti passi sono stati compiuti e gli studenti già ci sono. Per il momento sono iscritti presso un’università privata del Montenegro, che è nostra partner, ma al secondo semestre potranno già passare giuridicamente alla nostra facoltà, che segue il «processo di Bologna».

Abbiamo un gruppo di 15 studenti provenienti dalla Russia, ragazzi che avrebbero potuto iscriversi alle migliori università di Mosca; in pratica, è un altro modo per dare una chance alla gioventù più brillante, che ha voglia di studiare, e al tempo stesso anche agli studiosi, ai docenti che possono continuare le proprie ricerche senza censure, in piena libertà. In questo senso la nostra è una missione importante.

Ho ricominciato da zero in Montenegro

Bar e sala lettura del Centro Culturale «Aditoria» di Budva.

Ma non basta, sabato 16 settembre a Budva abbiamo inaugurato un centro culturale russo, con sala conferenze e libreria. I libri sono per lo più in russo, ma anche in ucraino, bielorusso e montenegrino. È un luogo dove tenere serate; già il giorno successivo è venuto a parlare Aleksandr Archangel’skij; insomma è un centro significativo nella vita culturale russofona in Montenegro.

Ma vogliamo andare avanti. Ad esempio, un aspetto importante è che subito dopo l’inizio della guerra, con i colleghi abbiamo organizzato un Fondo di assistenza ai rifugiati ucraini, e anche ai fuggiaschi russi; aiutiamo sia gli uni che gli altri. All’inizio abbiamo affittato alcune case, oggi abbiamo un unico edificio grande dove ospitiamo i migranti per due settimane gratuitamente. Gli diamo il tempo di riprendere fiato, i nostri volontari li aiutano a fare i documenti, a cercare un lavoro, una casa, ci sono anche questioni piccole come trovare una carta sim per il cellulare; cose banali, ma cerchiamo di evitare che cadano in mano a imbroglioni.

Certo non abbiamo i numeri di profughi dei paesi che confinano con l’Ucraina, ma facciamo quel che possiamo, diamo uno sostegno psicologico. Abbiamo un bel gruppo di volontari, soprattutto russi e ucraini, e il lavoro è tanto. Col tempo speriamo di coinvolgere anche più montenegrini, sarebbe un passo per l’integrazione, perché resta sempre il pericolo di chiuderci in un ghetto.

C’è dunque un aspetto luminoso nella tragedia della diaspora…

Davvero, moltissime cose, come il movimento dei volontari, esistono grazie all’esperienza positiva accumulata in Russia negli ultimi 30 anni, parlo della vita civile, del volontariato, dei progetti educativi. C’erano molte bellissime esperienze costruttive, e molta gente disposta a edificare invece che a distruggere.

In questo senso, penso che potremmo condividere coi montenegrini i principi e le tradizioni del volontariato; potremmo trasmettere alle Onlus locali la nostra esperienza, soprattutto in campo educativo.

Ma ora che ho descritto cosa facciamo, torno al contenuto, al punto cruciale attorno al quale nascono ed esistono tutti i nostri progetti, e cioè trovare l’equilibrio fra tre elementi: il fatto che le nostre iniziative e i nostri progetti servono a preservare l’eredità culturale, la lingua, insomma tutto ciò che è riconducibile alla «russicità». Il globalismo, l’idea di Global Citizenship, l’essere cittadini del mondo e da ultimo il radicamento, ossia l’integrazione in Montenegro, nei Balcani. Noi cerchiamo di trovare questo equilibrio, nella convinzione che tutti e tre gli elementi sono importanti.

Ho ricominciato da zero in Montenegro

Una classe dell’Adriatic College di Budva.

Insomma, cerchiamo di offrire una formazione europea, in lingua russa, in Montenegro; perché ogni componente è importante e nei nostri programmi cerchiamo un equilibrio ma non è semplice, non esistono ricette pronte, programmi già fatti o vademecum per gli emigrati antimilitaristi.
Né in Montenegro hanno programmi di integrazione già pronti, non siamo in Germania o in America. Nessuno era pronto a un simile afflusso di migranti, né c’era alcuna esperienza pregressa di questo tipo, niente di niente. Esiste un programma della UE per lo sviluppo della cittadinanza globale, ma oggi non viene quasi mai applicato ai migranti dalla Russia, perché questi non vengono considerati come una minoranza che ha bisogno di sostegno dato che provengono dal paese aggressore. E più in generale, i migranti russi non dico che vengano discriminati, ma sono guardati con un certo sospetto. Non ci sono finanziamenti per la loro integrazione, pertanto noi cerchiamo di inventarci delle soluzioni.

E in fondo io vorrei proprio tirar fuori da questi ragazzi russi dei cittadini globali, che uniscano in sé tutti i diversi livelli, per cui la parte russa sia armonicamente unita ai valori umani universali, e che abbiano una concezione del mondo aperta, un pensiero critico, disponibilità ad accogliere le opinioni altrui, capacità di adattamento e si sentano a proprio agio in qualsiasi parte del mondo.

La capacità di adattamento rapido è la grande dote di questi migranti. Io dico loro che se è stato difficile lasciare tutto e trasferirsi, hanno comunque acquisito un’esperienza che tornerà loro utile. La volta seguente sarà più facile passare dal Montenegro alla Germania o all’America o all’Italia, perché avranno imparato cos’è l’integrazione. L’adattamento è un elemento necessario, ma vorrei che assieme a questo si mantenesse il legame naturale con la loro lingua, la loro eredità culturale, in modo da inserirle armonicamente, senza contrapposizioni, come invece capita spesso, ahimè. Io penso che la lingua e la cultura russe abbiano diritto di essere presenti nel contesto globale alla pari di tutte le altre. Si può essere europei russi.

Sarete degli europei russi e ortodossi…
Esattamente, qui volevo arrivare. A me sembra che sia possibile, ma non sarà facile perché su questo cammino c’è sempre il rischio dell’estremismo, e noi ci lasciamo facilmente attrarre dall’estremismo. Infatti, potremmo arrivare al totale rifiuto del nostro passato, a non volerne più sapere né della lingua, né della cultura, come se fosse una storia morta e sepolta, e voler diventare montenegrini, tedeschi, italiani per i quali tutto quello che abbiamo vissuto prima è un brutto sogno, di cui ci vergogniamo. Oppure possiamo arrivare all’estremo opposto, al crescere del nazionalismo e della russicità nel senso peggiore.
Per questo noi cerchiamo di trovare un certo equilibrio e integrazione sociale.

Come si vede dalla mia storia che le ho raccontato, ormai ho perso l’illusione di rifare il mio paese; avevo tentato di immaginare i cambiamenti della società in termini generali, ma in realtà per ciascuno è un cammino personale, si deve trovare un equilibrio.
È l’armonia che ti rende libero, che ti rende felice, integro. L’integrità consiste nel fatto che puoi vedere in te stesso la russicità (che comunque hai dentro), la globalità (che ti fa udire gli altri, e capire che sei parte di un mondo globale, e ti fa sentire bene in qualsiasi parte del mondo), e al tempo stesso il radicamento, per cui riesci a integrarti e a interessarti del mondo in cui ti trovi, ad assumerne la lingua, la cultura senza rifiuti ma anzi con interesse. Questa è la capacità che costituisce l’integrità interiore.


Foto di apertura: Unsplash.com

Vladimir Šmelëv

Vladimir Šmelëv è stato vicedirettore della scuola Letovo, nella Nuova Mosca e prorettore dell’Università umanistica ortodossa San Tichon, di Mosca. Attualmente vive in Montenegro dove dirige la rete di scuole Adriatic.

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