28 Settembre 2022
Lettere dalla Russia / 6 / Siamo un popolo paziente o irresponsabile?
Invece di subire le situazioni possiamo guardarle in faccia e fare la nostra scelta. Il forte appello di Lida Moniava, che ha deciso di non abbandonare il suo hospice pediatrico a Mosca.
Quando in Russia si sono inasprite le repressioni, la gente ha cercato di continuare a vivere come niente fosse, dicendo che le persecuzioni sono solo per quelli che si immischiano in politica. Se uno si fa gli affari suoi, non scende in piazza, non fa politica, le repressioni non lo toccano. Se lo toccano è colpa sua, se l’è cercata.
Quando le truppe russe si sono concentrate al confine con l’Ucraina, la gente ha cercato di continuare a vivere come niente fosse, dicendo che non sarebbe iniziata una guerra, che facevano così solo per spaventare. Quando è iniziata l’operazione militare speciale, la gente ha detto che quella non era ancora una guerra, e che non ci sarebbe stata la mobilitazione. Quando è stata annunciata la mobilitazione parziale, la gente ha detto che non era ancora la mobilitazione generale, che non avrebbero chiamato alle armi noi e i nostri cari. Anche quando gli arriverà la cartolina precetto troveranno il modo di consolarsi, dicendo che non ci manderanno al fronte ma nelle retrovie, oppure ci manderanno al fronte, ma non nei «punti caldi», oppure ci manderanno nei punti caldi ma io non sparerò, ecc. Riusciremo a giustificare anche l’arrivo delle bare. Come, non lo so: forse con qualche idea sublime, oppure, come hanno detto i genitori di quel ragazzo caduto in guerra, «Grazie, figliolo per la macchina» [comprata coi soldi dell’indennizzo statale].
Siamo un popolo molto paziente o molto irresponsabile?
Mi sembra importante in qualsiasi situazione chiamare le cose con il loro nome e prendersi la responsabilità della propria vita e di quella delle persone più deboli che ci stanno accanto. E non cantare la canzonetta di Masjanja [personaggio dei cartoni satirici di Oleg Kuvaev]:
«Ancor non siam fottuti, ancor non siam fottuti. Siamo solo nella merda, ma fottuti proprio no. Di sicuro non fottuti, scamperemo per un po’. Ma fottuti ancora no».
All’hospice, quando diciamo ai genitori di un bambino con una malattia incurabile di provare a capire dove e come pensano sia meglio morire per il figlio, loro all’inizio rispondono che non vogliono parlarne, non vogliono pensarci, che questo non accadrà, che se saremo ottimisti andrà tutto bene. Ma sappiamo per esperienza che quando si comincia così, va tutto male. Il bambino muore nel posto sbagliato, nel modo sbagliato, con grandi sofferenze. Se i genitori hanno il coraggio di guardare in faccia la realtà e di prepararsi al peggio, è più facile per tutti che non chiudere gli occhi mentre si va a fondo, continuando a ripetere che «non siamo fottuti».
È molto pericoloso quando la gente spera per il meglio senza prepararsi al peggio. Non riesco ancora a capire cosa mai potrà costringere la nostra società a risvegliarsi dal sonno e ad aprire gli occhi chiusi dall’atarassia della stabilità quotidiana e di un ipotetico benessere.
È molto importante farlo.
Di sicuro so che in qualsiasi situazione, anche la più dura e senza vie d’uscita, non possiamo subire le circostanze, esserne vittime. In qualsiasi situazione bisogna assumersi le proprie responsabilità, fare una scelta, prendere delle decisioni, valutare le conseguenze. Dev’esserci un piano, bisogna considerare i rischi. «Prepariamoci al peggio, sperando per il meglio», è lo slogan dei centri di cure palliative. Anche nella situazione peggiore devi avere un piano in cui a decidere sei tu, e nessun altro. Trovandomi nella situazione attuale, penso che sono io a scegliere di non andarmene, di restare qui, dentro a questo problema. Capisco cosa potrà succedere, ma vedo che essere qui e ora ha un senso.
È molto complicato prendere delle decisioni oggi in Russia. Tutto il mio lavoro si è costruito attorno al valore di ogni vita umana e al fatto che tutte le persone sono uguali e hanno uguali diritti. Attorno al valore della vita non solo di chi è bello, forte e ricco, ma anche di chi è debole, fragile e malato. All’uguale valore dei loro diritti. La vita di un bambino malato, immobile, che respira grazie a un ventilatore meccanico, ha lo stesso valore e lo stesso senso di quella di un funzionario o di un uomo d’affari ricco e influente. Qui invece mi sono ritrovata all’improvviso in una situazione in cui nessuna vita ha più valore. Né quella degli intelligenti, né quella degli sciocchi, né quella dei singoli, né quella delle migliaia: tutti al macello!
Il lavoro all’hospice con i bambini incurabili mi ha insegnato un’altra cosa importante: i miracoli. I miracoli accadono non dove c’è forza, benessere e dove «volere è potere». Accadono piuttosto fra i deboli e gli indifesi. La persona più indifesa, che non riesce a muoversi, a deglutire, a star seduta, a parlare, in preda alle convulsioni, spesso può cambiare (in meglio) il mondo attorno a sé molto più di un uomo potente che ha i soldi, un ruolo importante, conoscenze e risorse. Le vittorie sono miracoli che raramente si riescono a guadagnare o a conquistare, che non si possono gestire con la forza o col denaro.
In sintesi, due citazioni:
«Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8)
«Sapesse Erode che, più forza ha,
più vero e inevitabile è il miracolo.
La costanza di quest’affinità
è il meccanismo base del Natale» (I. Brodskij, Poesie, Adelphi)
Lida Moniava
Lida Moniava ha studiato presso la facoltà di giornalismo dell’Università statale Lomonosov di Mosca. Dal 2014 è vice direttore dell’hospice pediatrico Dom s majakom (La casa col faro) e dal 2018 è direttrice dell’omonima fondazione di beneficenza.
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