28 Settembre 2024

Una gioia da condividere

Lida Moniava

Intervista alla vicedirettrice dell’hospice pediatrico La Casa del faro (di cui parla la mostra Un mondo in cui ciascuno è importante, Meeting di Rimini 2024). La compagnia ai bambini disabili o incurabili e alle loro famiglie, in Russia sta sfatando i miti e pregiudizi sull’handicap e sul fine vita. (intervista di Marta Dell’Asta)

Quali sono gli ostacoli principali che ha incontrato nel suo lavoro all’inizio? Venivano da parte dello Stato, dalle norme del Ministero della Salute, o dalla mentalità comune e delle stesse famiglie dei bambini malati?
Quando abbiamo incominciato, a Mosca c’era solo l’hospice per adulti; non esistevano dei servizi di assistenza sociale, e non si sapeva a chi rivolgersi. Ad esempio, una famiglia a cui dicevano che il loro bambino era inguaribile, non sapeva a chi chiedere aiuto. Se andava in ospedale si sentiva dire che il bambino non poteva più guarire e quindi non bisognava occupare inutilmente un letto. Non c’era nessuno che aiutasse i bambini inguaribili. Non c’era la terapia del dolore, anche se il bambino gridava per il male non c’erano medicine, nessuno li assisteva a domicilio. Quando abbiamo fondato l’hospice pediatrico, la gente non sapeva ancora di cosa si trattasse, pensava che fosse un posto dove si andava a morire. Anche i genitori lo pensavano: noi telefonavamo, offrivamo l’aiuto dell’hospice ma loro dicevano: «No, non ci serve, è come andare al cimitero, non ne abbiamo ancora bisogno». Era difficile farsi capire. Quando abbiamo smesso di usare la parola «hospice» e abbiamo incominciato a dire che eravamo una fondazione di beneficenza, le famiglie hanno accettato il nostro aiuto.

Ma da allora sono già passati undici anni, e adesso sono le famiglie stesse a scriverci, a chiedere di essere prese in carico dall’hospice, si offendono se li cancelliamo dal registro perché il bambino sta meglio, e dicono di avere ancora bisogno dell’hospice. La situazione generale è molto cambiata.

Quanto è durato questo processo di cambiamento? Quali cambiamenti di mentalità ha notato in questo lasso di tempo? Come veniva recepito il sostegno ai bambini che stavano per morire allora e come viene recepito adesso? I cambiamenti avvengono solo in città, e in provincia persiste una mentalità diversa?
Faccio questo lavoro da quindici anni, e il processo non si è mai interrotto in tutto questo tempo, anzi, forse era già in atto prima che io arrivassi.  Io posso solo parlare per la regione di Mosca, dove lavoriamo, conosco poco la situazione delle altre regioni. Prima si pensava che avere in famiglia un bambino incurabile fosse un’enorme disgrazia, c’era il mito che il papà avrebbe abbandonato la famiglia, che la mamma avrebbe dovuto vivere per sempre in funzione di questo bambino, non avrebbe potuto avere una sua vita, che non c’erano aiuti, e soprattutto si proponeva di abbandonarlo in un brefotrofio per bambini disabili, e molti di questi bambini sono finiti lì non perché i genitori fossero cattivi o fossero morti, ma perché nel reparto maternità si diceva loro che questi figli andavano affidati al brefotrofio essendo impossibile tenerli a casa.

Da noi in questi anni la situazione è molto cambiata. Grazie alla Casa del faro, oggi si tende non solo ad aiutare i bambini, ma anche a diffondere informazioni, comunicare che si può vivere pienamente anche con un bambino che necessita di cure palliative. Sui media ci sono molte pubblicazioni su questo argomento: si parla ad esempio di una famiglia con un bambino che ha il ventilatore polmonare e che è andata al mare, o di una famiglia con problemi analoghi che trascorre le vacanze nella sua casa di campagna, o di un bambino che va a scuola in carrozzina. È come se nella società fosse cambiata l’immagine del bambino disabile. Adesso se una famiglia già durante una certa fase della gravidanza viene a sapere che il suo bambino avrà bisogno di cure palliative, non si profila più l’immagine terribile del papà che abbandona la famiglia, del bambino da affidare al brefotrofio. Hanno già visto che certi bambini vanno in elicottero, navigano su uno yacht, vengono al mare con noi, e non si spaventano più come prima. Sono intervenuta alla televisione federale, ma anche sui social, su internet…

Una gioia da condividere

Lida Moniava con una bimba dell’hospice pediatrico. (La Casa del Faro)

Quindi siete conosciuti. Si può dire che oggi la gente sta cominciando a venire da voi anche da varie regioni, e che in Russia si comincia a sapere, non solo nella capitale, che esiste la possibilità degli hospice?
Sì ma, secondo me, non è molto positivo che una famiglia con un bambino malato sia costretta a trasferirsi dalla propria città in un’altra per ricevere aiuto in un hospice. Non ci piace molto, perché di fatto restano senza amici, parenti, conoscenti. Il bambino può anche vivere a lungo, magari può restare malato per anni, e la famiglia è strappata alla sua comunità, al suo ambiente.

Può capitare che le famiglie vengano a Mosca per ricevere un aiuto, ma a me spiace per loro, perché sono costrette a lasciare le proprie case, a vivere come dei profughi, invece di stare nel proprio ambiente. Ma adesso il governo sta cercando di fondare degli hospice in varie regioni, da qualche parte ne stanno già sorgendo, anche se non so come siano dal punto di vista qualitativo.

Oggi siete in buoni rapporti con le autorità? Sono disposte ad aiutarvi, si fidano di voi, o sono indifferenti?
Il 15% del nostro bilancio oggi è finanziato dallo Stato: l’85% dal fundraising. Anche il terreno su cui si trova il nostro hospice e gli edifici ci sono stati concessi dalle autorità in uso temporaneo.

Quindi vi approvano e vi sostengono?
È difficile dirlo, perché molte organizzazioni no-profit oggi in Russia vengono considerate «agenti stranieri» e devono chiudere; perciò, la situazione di queste organizzazioni è molto instabile. Certo, le autorità ci danno effettivamente dei soldi, ma tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Un bel giorno accendi il telegiornale e scopri di essere un «agente straniero». Tutto può cambiare dall’oggi al domani.

Ad esempio, adesso è stata chiusa la fondazione di beneficenza Takie dela (Così stanno le cose), che ha lavorato molto in Russia, ha aiutato molti hospice e altre fondazioni, ha operato nelle piccole città. Eppure, è stata dichiarata «agente straniero» e chiusa. Parecchie associazioni no-profit sono state chiuse per questo motivo.

La fede ha dato impulso alla sua opera, alle sue scelte, o sono due strade che si sono sviluppate separatamente, da una parte la fede, la sua vita spirituale, e dall’altra la sua professionalità?
È successo piuttosto il contrario: prima sono andata a fare volontariato in ospedale, ho cominciato ad avere a che fare con i bambini inguaribili, che morivano sotto i miei occhi. Allora andavo ancora a scuola, frequentavo l’ultimo anno delle superiori, e mi sono sorte delle domande: perché succedono queste cose? Come stare di fronte alla morte dei bambini? Ero alla ricerca di una risposta, e nell’ospedale dove andavo c’era un sacerdote, padre Georgij Čistjakov, amico di padre Men’. Padre Men’ aveva dato vita a un gruppo di volontariato in ospedale, dopo la sua uccisione questo gruppo ha continuato a operare con padre Čistjakov. Padre Georgij celebrava la liturgia, scriveva degli articoli, uno dei quali mi era piaciuto molto, si intitolava Discesa agli inferi.

Mi sembrava rispondesse alla mia domanda: dov’è Dio in un ospedale dove muoiono dei bambini?

Padre Georgij raccontava che, quando celebrava e gli passavano l’elenco dei nomi di bambini morti da ricordare durante la Liturgia, lui ne chiedeva conto a Dio. E poi lui stesso affermava che non riusciva a spiegare il perché di tutto ciò, ma poteva dire con certezza che Dio era accanto a quei bambini. Era come se quell’articolo avesse risposto alle mie domande, dopodiché ho cominciato a frequentare la chiesa dove celebrava padre Georgij.

Il suo volontariato, quindi, è incominciato prima dell’incontro con lui. Ma allora da dove viene questa passione? Le è stata trasmessa in famiglia?
No, ho letto semplicemente un avviso su internet che parlava dei bambini in ospedale, e mi sono interessata. Allora ero molto giovane, andavo a scuola. Poi ho conosciuto questi bambini che sono diventati per me come dei piccoli amici, era difficile dimenticarli, ho cominciato a stare con loro, ad andare a trovarli come se mi avessero invitato.

Quanti anni aveva, allora?
Sedici.

Un corridoio dell’hospice arredato a tema marino. (La Casa del Faro)

Poi ha fatto amicizia con padre Georgij. È stato un momento importante nella sua vita?
Non è stata un’amicizia vera e propria, andavo solo alla Liturgia nella chiesa dove celebrava, ma anche lui si è ammalato di cancro ed è morto molto velocemente, letteralmente nel giro di un anno. Però ha lasciato i suoi libri, quello che ha detto. C’è stata una conoscenza personale ma non un’amicizia. Andavo da lui a fare la comunione, a confessarmi. Poi ho cominciato a frequentare un’altra chiesa, dove c’era un altro sacerdote amico di padre Men’, padre Vladimir Lapšin.

Quindi, padre Georgij è stato quasi un intermediario fra padre Aleksandr Men’ e lei. La sua decisione di occuparsi dell’hospice e dei bambini è stata una scelta molto seria e impegnativa, tanto da coinvolgere tutta la vita. Non ha mai pensato che fosse eccessivo? Che non fosse giusto dedicarsi interamente, dare tutta la vita a quest’opera?
No, io la vedo diversamente. Non come un’opera faticosa o un luogo di sofferenze. Non penso di sacrificarmi, al contrario: l’hospice è un luogo dove, ogni giorno che passa, proviamo una grande gioia quando vediamo che abbiamo portato i bambini a fare una passeggiata, che hanno sperimentato qualcosa di bello, hanno assaggiato qualcosa di buono, e questo mette allegria. Quando si lavora con i bambini, succede sempre qualcosa. Perciò devo dire piuttosto che trascorriamo dei bei momenti insieme, e che io ricevo dai bambini delle emozioni positive. È più quello che ricevo che quello che do loro.

Secondo lei la preparazione professionale, in particolare quella medica, viene per prima, e solo poi si può affezionarsi psicologicamente e spiritualmente ai bambini, o, al contrario, prima ci si avvicina ai bambini e poi ci si prepara professionalmente? Com’è stato per lei?
Secondo me, da questo punto di vista, dà molto di più l’esperienza pratica, passando molto tempo con il bambino. Ad esempio, guardando i medici dell’hospice, mi accorgo che sanno molte cose, hanno studiato tanto, ma non sanno come spostare un bambino, se è il caso o no di dargli da mangiare con la PEG, perché hanno studiato tanti anni ma non sono capaci di passare tre ore con un bambino, non capiscono l’utilità di questo tempo.

Io non ho studiato tanto, non sono nemmeno medico ma so svolgere moltissime manovre mediche, perché passo molto tempo con i bambini, vado con loro in gita, in campeggio.

Quest’estate sono andata in campeggio con una bambina che aveva il dispositivo per la ventilazione polmonare, la PEG, l’insufflatore-aspiratore e moltissime attrezzature. Solo cercando di costruire un buon rapporto con questa bimba, Veronika e per amor suo, ho imparato a usare tutte queste apparecchiature, e non è stato semplice.

Lei consiglia ai suoi collaboratori di fare lo stesso o chiede loro comunque di studiare?
All’hospice ci sono molti momenti di formazione, per due giorni al mese tutti i collaboratori dell’hospice studiano, ma lo studio dà il 10% delle competenze, il 90% lo dà l’esperienza pratica; perciò, cerchiamo di organizzare dei campi estivi a cui invitiamo i nostri collaboratori. Per esempio, quest’estate abbiamo portato in vacanza i bambini di un brefotrofio, che necessitano di cure palliative e sono orfani, e i nostri collaboratori hanno fatto da accompagnatori. Quando hai vissuto una settimana con un bambino, gli hai dato da mangiare, lo hai spostato, gli hai fatto il bagno, questo ti dà molto di più che le lezioni, i libri e i corsi.

È difficile trovare dei collaboratori di questo tipo, con questa sensibilità, o sono loro a venire da voi?
Oggi fra l’altro questo dipende anche dall’economia di guerra che si è instaurata in Russia, per cui sono aumentati molto gli stipendi di tutti. Quest’anno, ad esempio, una nostra collaboratrice ci ha lasciati per andare a lavorare in una fabbrica di droni, dove prende il doppio dello stipendio che riceveva qui. Proprio a causa dell’economia di guerra, i nostri stipendi all’hospice vengono considerati molto bassi, e spesso è solo per ragioni economiche che è difficile trovare nuove persone da assumere. Quanto invece alle qualità personali, non si può capire da un colloquio se una persona le possiede. Quando comincerà a lavorare si vedrà se è adatta a questo compito.

Una gioia da condividere

Lida Moniava con alcune piccole pazienti dell’hospice. (La Casa del Faro)

Come le è sembrata l’idea di creare una mostra sulla vostra attività? Forse è troppo doloroso mostrare queste realtà, oppure è un bene che la gente veda e si immedesimi? Se non sbaglio, la mostra del Meeting è la prima di questo genere. È utile moltiplicare queste iniziative, o bisogna procedere con cautela?
Al contrario, ci fa molto piacere. Per noi questo approccio non è doloroso. Per me il lavoro all’hospice non è qualcosa di faticoso, di doloroso, è piuttosto una gioia, ci sono tante cose belle che naturalmente abbiamo voglia di condividere. Il nostro lavoro non consiste solo nell’aiutare dei bambini concreti, ma anche nel divulgare l’idea delle cure palliative nella società. È molto importante che in futuro qualcuno che ha visto la mostra e magari ha un conoscente con un bambino malato, non si senta più impotente ma sappia che qualsiasi malattia può non essere spaventosa. Perciò per noi è molto importante raccontare il più possibile degli hospice, diffondere queste informazioni,

ma soprattutto è importante che da qualche parte in Europa ci sia gente che vuole dialogare con noi, perché non ci aspettavamo che oggi qualcuno fosse disposto a interagire con un paese che sta facendo la guerra.

I problemi di cui vi occupate e che vengono illustrati nella mostra, riguardano tutta l’umanità, perché dappertutto ci sono queste malattie e i tentativi di affrontarle. Secondo lei, la vostra particolare esperienza russa ha delle peculiarità, qualcosa in più che potete suggerire agli altri, per esempio a noi? Che cos’ha in più la vostra esperienza russa?
Il nostro punto di forza è che siamo riusciti a fare un solo hospice in una città enorme come Mosca, di diciassette milioni di abitanti. Qualsiasi hospice europeo che visitiamo funziona al 100%, il nostro al 1000%, da noi passano moltissime famiglie. Quando siamo stati in Inghilterra, abbiamo chiesto quanti bambini all’incirca muoiono ogni anno in un hospice pediatrico, e loro hanno risposto: due o tre. Da noi ne muoiono 130 all’anno, perciò abbiamo una grandissima esperienza. Un altro fattore è che in qualsiasi paese europeo un bambino con disabilità è aiutato sotto molti aspetti: a scuola, nel quartiere, con l’assistenza infermieristica, in ospedale. Noi invece dobbiamo imparare tutto e risolvere da soli tutti i problemi dei nostri pazienti, perché gli altri servizi non lavorano con loro, quindi, all’interno del nostro hospice ci sono una scuola, un’officina ortopedica, si costruiscono gli apparecchi di ventilazione polmonare. Negli altri paesi non lo fanno, perché per fortuna ci sono dei servizi ad hoc.

Oggi le scuole russe accettano in classe anche i bambini con disabilità o con ritardo mentale?
Per molto tempo in Russia si è usato il termine «bambini non scolarizzabili», e i bambini con handicap erano considerati tali, ma poi, dopo aver firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, entrata in vigore nel 2008, la Russia ha cominciato a modificare la propria legislazione. Però nella vita reale è come se non l’avesse ancora fatto, e quando cerchiamo di inserire in una scuola dei bambini che necessitano di cure palliative, ci dicono sempre che non ci sono le condizioni necessarie. Non dicono che questi bambini sono «non scolarizzabili», ma che la scuola non ha le condizioni necessarie per accoglierli, non ha abbastanza insegnanti, ha troppe barriere architettoniche. In effetti, abbiamo svolto dei sondaggi fra i pazienti, ed è risultato che duecento bambini non escono mai di casa, neanche per fare una passeggiata. Quattrocento bambini escono letteralmente un paio di volte l’anno, e subiscono un enorme isolamento sociale a causa delle barriere architettoniche e del mancato accesso all’istruzione.


(Foto di apertura: La casa del Faro)

Lida Moniava

Lida Moniava ha studiato presso la facoltà di giornalismo dell’Università statale Lomonosov di Mosca. Dal 2014 è vice direttore dell’hospice pediatrico Dom s majakom (La casa col faro) e dal 2018 è direttrice dell’omonima fondazione di beneficenza.

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