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27 Marzo 2017
Pronti per una nuova Europa
«L’Europa ritrova speranza». Queste parole, ripetute più volte da papa Francesco nel suo discorso in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma, hanno dell’incredibile davanti al moltiplicarsi delle violenze: quelle che […]
«L’Europa ritrova speranza». Queste parole, ripetute più volte da papa Francesco nel suo discorso in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma, hanno dell’incredibile davanti al moltiplicarsi delle violenze: quelle che insanguinano territori sempre più estesi del nostro pianeta ma anche quelle costituite dai muri eretti quotidianamente dall’indifferenza, dalle barriere frapposte tra le persone e le società da una mentalità nutrita di diffidenza e di odio.
Eppure il pontefice le ha pronunciate senza chiudere gli occhi né censurare i mali di cui il mondo è oggi testimone: ha parlato al contrario del valore salutare della crisi, ricordando che proprio nel contesto degli «anni bui e cruenti della Seconda guerra mondiale» i leader politici del tempo «non hanno mancato d’audacia», e anzi, «il ricordo delle passate sventure e delle loro colpe sembra averli ispirati e donato loro il coraggio necessario per dimenticare le vecchie contese e pensare ed agire in modo veramente nuovo per realizzare la più grande trasformazione dell’Europa».
È proprio di questo coraggio di pensare e agire in modo nuovo, mettendo da parte paure, pregiudizi e risentimenti per praticare come più realistiche e feconde le vie della fiducia e della solidarietà, che l’Europa sembra aver innanzitutto bisogno oggi. Nei discorsi dei leader politici come nella mentalità della gente normale oggi è più ovvio fronteggiarsi con sospetto che accettare il rischio di dar credito all’altro. Dopo un periodo di stasi, in questi giorni Minsk, Mosca, Pietroburgo e tante altre città russe sono tornate a essere teatro di una serie di manifestazioni di protesta (rivendicazioni economiche basilari in Bielorussia, dove la crisi si fa sentire pesantemente; dimostrazioni anti-corruzione in Russia) brutalmente sciolte dalle forze dell’ordine, mentre la folla scandiva al loro indirizzo lo slogan «fascisti». Oltre al ferreo controllo di ogni espressione di opposizione, per cementare il consenso interno e «pilotare» le emozioni delle masse si ricorre sempre più frequentemente all’immagine del nemico in agguato da Occidente.
Ad esempio, parallelamente alle celebrazioni dei Trattati di Roma, nel suo discorso al plenum del partito comunista il leader Gennadij Zjuganov ha affrontato il tema europeo per spiegare «le origini dell’odio dell’Occidente per la Russia». Radici profonde – secondo Zjuganov – che risalirebbero addirittura allo scisma dell’XI secolo fra le Chiese cristiane (quando, in verità, la Rus’ era ancora in fasce). Nel discorso di Zjuganov non sono mancate disinvolte argomentazioni storiche (l’immancabile sacco di Costantinopoli perpetrato dai crociati nel 1204, come pure i tentativi della «cattolica Polonia» di mettere le mani sulla Russia nel XVI secolo, la descrizione a tinte «esageratamente fosche di un grande sovrano come Ivan il Terribile, le cui gesta in realtà impallidiscono a confronto con i delitti dei monarchi europei a lui contemporanei», e più in generale il disprezzo occidentale per la «barbara, selvaggia Russia»). Ma non è questo l’importante: il problema è che questa visione dà per assodato che alla base del rapporto tra le due civiltà vi sia l’odio dell’una per l’altra, che questa menzogna cerca di cancellare con un colpo di spugna secoli di storia e cultura comune, l’idea stessa di Europa come «una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare» (per usare un’altra espressione del discorso di papa Francesco). Questa mentalità di sospetto, questa accanita ricerca del nemico stanno diventando, nelle forme più diverse, un habitus di pensiero per un numero sempre maggiore di persone; si opera, sia pure con altre formule, la stessa sostituzione della realtà con l’ideologia, che nel XX secolo ha generato i mostri totalitari.
Un individuo atomizzato o centrifugato da un’identità che si risolve in realtà in una zavorra di norme e comportamenti da subire; una società che sembra aver smarrito ciò in cui il filosofo Rémy Brague identifica il nervo dell’identità dell’Europa: «La coscienza contemporaneamente del proprio valore e della propria indegnità. Del proprio valore di fronte alla barbarie interna ed esterna, della quale deve rendersi maestra in virtù dell’universale di cui è portatrice, e della sua indegnità rispetto alla sorgente a cui attinge, e di cui essa non è che la messaggera e la serva». È a questa identità che si riferisce il papa esortando a «ricominciare a pensare in modo europeo»: «L’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni», e quindi riconosciuto come persona e famiglia di persone e di popoli, «ciascuna con la propria originalità», secondo una visione di unità che non impone l’uniformità. «L’Europa ritrova speranza nella solidarietà», prosegue papa Francesco – una solidarietà «caratterizzata da fatti e gesti concreti», in grado di superare «l’egoismo che chiude in un cerchio ristretto e soffocante, che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”».
Ancora, «l’Europa ritrova speranza quando non si chiude nella paura di false sicurezze». «La sua identità è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale», fa rilevare Francesco: «Non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale. Quale cultura propone l’Europa oggi? La paura che spesso si avverte trova, infatti, nella perdita d’ideali la sua causa più radicale. Senza una vera prospettiva ideale si finisce per essere dominati dal timore che l’altro ci strappi dalle abitudini consolidate, ci privi dei confort acquisiti, metta in qualche modo in discussione uno stile di vita fatto troppo spesso solo di benessere materiale. Al contrario, la ricchezza dell’Europa è sempre stata la sua apertura spirituale e la capacità di porsi domande fondamentali sul senso dell’esistenza. All’apertura verso il senso dell’eterno è corrisposta anche un’apertura positiva, anche se non priva di tensioni e di errori, verso il mondo. Il benessere acquisito sembra invece averle tarpato le ali, e fatto abbassare lo sguardo. L’Europa ha un patrimonio ideale e spirituale unico al mondo che merita di essere riproposto con passione e rinnovata freschezza e che è il miglior rimedio contro il vuoto di valori del nostro tempo, fertile terreno per ogni forma di estremismo. Sono questi gli ideali che hanno reso Europa quella “penisola dell’Asia” che dagli Urali giunge all’Atlantico».
«Dagli Urali all’Atlantico»: l’Europa ritrova la speranza – in continuità con uno dei temi più cari a Giovanni Paolo II – quando non creiamo mitologie di odio e divisione, ma riconosciamo l’unità da cui siamo nati e che ci costituisce, l’ecumenismo reale in cui si radica ogni altro valore di solidarietà e cooperazione.