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14 Luglio 2016
In dialogo con il mondo
«Ci sono due modi per dire che siamo “ortodossi”, e cioè per affermare la nostra appartenenza al vero: il primo è quello di definire noi stessi e la nostra identità […]
«Ci sono due modi per dire che siamo “ortodossi”, e cioè per affermare la nostra appartenenza al vero: il primo è quello di definire noi stessi e la nostra identità facendo risaltare per converso l’errore, la non verità degli altri, e finendo così per esaltare continuamento “noi” e “ciò che è nostro” in opposizione a tutto il resto, sentito come estraneo o addirittura nemico. Così nasce l’idea di una “scuola ortodossa”, di una “stampa ortodossa”, ma anche di una “moda ortodossa”, di una “medicina ortodossa”, di una “cucina ortodossa” ecc. E gli altri, il resto, a questo punto li respingiamo e li chiamiamo per definizione eretici o quantomeno eterodossi…».
Sono alcune considerazioni di un sacerdote del patriarcato di Mosca, con cui qualche giorno fa stavamo dialogando sulle sorti del Concilio panortodosso e sul principio della «sinodalità» (sobornost’), essenziale nell’ecclesiologia ortodossa ma riscoperto anche – proprio grazie ai pensatori religiosi russi – dalla teologia cattolica del XX e XXI secolo, da De Lubac e Balthasar fino a don Giussani. «È banale dire che la divisione passa tra Mosca e Costantinopoli: in realtà è molto più profonda e radicale, passa all’interno di ogni Chiesa, tra queste due definizioni di “ortodossia”», ha aggiunto il mio interlocutore. Lui non l’ha detto, ma io a questo punto non ho potuto fare a meno di pensare che la stessa cosa può valere anche per la nostra Chiesa, la nostra comunità, l’opera che abbiamo tra le mani…
Interessante, qual è allora l’altro modo per testimoniare al mondo la verità incontrata, e cioè la nostra «ortodossia»? Non è una concessione a «questo mondo», per così dire, un «dissolversi» in esso per non urtare suscettibilità o evitare conflitti, ma pesca proprio nel cuore della tradizione cristiana. C’è una bellissima espressione usata nella liturgia bizantina: «La luce di Cristo illumina ogni uomo»; quando il sacerdote esce sull’ambone a proclamare questa frase, con un cero acceso in mano, benedicendo con la croce, i fedeli si inginocchiano e si prostrano faccia a terra. È il riconoscimento che Cristo, nostra verità, è venuto a redimere alla radice l’universo intero, è Lui la consistenza di ogni cosa, e che quindi tutto ciò che di bello, di buono e di vero esiste ci appartiene, è nostro. «È questo il fondamento di ogni dialogo, il fondamento della testimonianza, della missione cristiana: una sconfinata fiducia in Cristo che ha già vinto, che risplende in tutto, e mi permette di godere del bene dell’altro, del bene di tutto». Questa conclusione del mio interlocutore ci fa toccare con mano, ancora una volta, la comune sfida dinanzi a cui i cristiani si trovano, ma soprattutto l’unità sostanziale che c’è fra noi, rappresentata, al di là delle divisioni umane, dal «fremito delle viscere della misericordia di Dio» (Is 63,15), dal fatto che Dio stesso, nel profondo di sé, è questo fremito per il nostro destino.
È consolante e rinfrancante scoprire l’eco di questo «fremito» di misericordia nella vita della Chiesa, qui in Russia, ad esempio in una vasta rete di opere di misericordia corporale e spirituale che resta nell’ombra – mentre sui mass media continua a passare solo l’idea di una gerarchia compromessa con il potere – ma che costituisce un segno molto interessante della crescita dell’organismo ecclesiale, del suo innervarsi nella società e del maturarsi della sua autocoscienza. Così pure, in questi giorni a Mosca si è ricordato l’anniversario della morte di Ekaterina Genieva e di padre Georgij Čistjakov. Sia l’uno che l’altra, figli spirituali di padre Aleksandr Men’, sono testimoni di una Chiesa che, visibilmente o invisibilmente, non ha mai smesso di rinascere, sia nelle persecuzioni di epoca sovietica sia tra le nuove tentazioni dall’epoca della perestrojka e degli ultimi decenni.
Padre Georgij, prematuramente scomparso il 22 giugno 2007, ha proseguito insieme ad altri amici l’opera di padre Aleksandr subito dopo la sua morte, nel 1990. Ciò che l’aveva affascinato, in quel sacerdote incontrato per caso dopo una giornata passata sugli sci, era stata l’incredibile apertura – «un uomo che mi veniva incontro dall’epoca apostolica, dalla Chiesa indivisa del primo millennio», e la profonda incarnazione nella comunità concreta, limitata, sparuta della Chiesa del tempo. «Non avevo mai pensato che tra la personalità splendente, inarrivabile di Cristo e le chiese frequentate da poche vecchiette ci potesse essere qualche legame. Ma il giorno dopo aver incontrato padre Aleksandr ho varcato la soglia di una di quelle chiese. E non ne sono più uscito», mi aveva detto una volta, raccontandomi la sua conversione. E, restando nella Chiesa, ne ha illuminato il mondo.
Ekaterina Genieva, di cui abbiamo celebrato il funerale il 14 luglio 2015, ha combattuto fino in fondo la «buona battaglia» guidando una grande organizzazione come la Biblioteca di Letteratura Straniera con straordinario tatto e professionalità, senza però rinunciare mai, nemmeno in tempi difficili, allo spirito di apertura umana e cristiana che le aveva insegnato padre Men’. Di lui amava raccontare un episodio curioso: «Una volta, mentre accompagnandolo in auto sciorinavo a padre Aleksandr le solite lamentele sulle cose e le persone che non andavano come avrebbero dovuto, lui mi disse: – era maggio – “Katja, guardati in giro, per come vanno le cose nel nostro paese, neppure l’erba dovrebbe crescere, eppure vedi, crescono anche questi splendidi lillà”. Mi fece accostare e scese (lo ricordo ancora, imponente, con la tonaca svolazzante e la croce sul petto), attraversò la strada e acquistò un mazzo di lillà e me lo porse dicendo: “Guarda che bellissimi fiori crescono, e pensare che nemmeno l’erba dovrebbe esserci: gioisci e rallegrati!”».
Nonostante fatiche e contraddizioni, è innegabile che i «lillà» sul ciglio della strada percorsa dalla Russia si vadano moltiplicando. E non solo attraverso un evento storico com’è stato l’incontro di Cuba, ma anche attraverso situazioni spinose come le polemiche che gli hanno fatto seguito all’interno della Chiesa russa, oppure le sofferte vicende legate al Concilio panortodosso, che costringono sempre di più la persona, ogni persona, a prendere posizione di fronte alla domanda che risuona da duemila anni: «Che cos’è la verità?».
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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