3 Ottobre 2019

Riflessioni di un professore infelice

Aleksandr Zakurenko

Cosa significa essere un insegnante oggi? La pubblica istruzione russa lascia ancora spazio all’iniziativa personale e alla creatività dei veri maestri? Il sacerdote Sergej Kruglov ha intervistato a riguardo Aleksandr Zakurenko, insegnante, traduttore e poeta.

Spesso si sente dire che l’educazione e l’arte sono vocazioni diverse, diversi talenti che non si intersecano. Il grande studioso, il poeta, il pensatore nel momento in cui cercano di insegnare qualcosa agli altri finiscono inevitabilmente per sacrificare la propria creatività. Pensa sia vero?
Io ho lavorato molti anni alla cattedra di metodologia dell’insegnamento della letteratura russa presso l’Istituto di formazione permanente degli insegnanti. Ma in 27 anni che lavoro nella scuola non ho mai aperto un libro di metodologia dell’insegnamento e non ho mai scritto lo schema di una mia sola lezione. Questa è la mia risposta: qualsiasi teoria sul giusto modo di insegnare è puro delirio. Deve fare l’insegnante chi capisce il cuore della sua materia, e non chi ha imparato sui libri come fare una lezione e come compilare i registri.
Parlare di «insegnante professionista» è come dire «sacerdote professionista»: un robot programmato non per le persone vive ma per delle etichette, dei modelli.

Insegnare è una forma di creatività. L’uomo crea nella misura in cui gli interessa creare. Lo stesso è per l’insegnamento. A me interessa lavorare solo perché ogni lezione è una finestra aperta sull’ignoto; io non so assolutamente cosa succederà durante la lezione. Io non do mai da leggere dei testi precisi, per cui capita spesso che in classe avvengano delle piccole scoperte in diretta, anche per me. I ragazzi scelgono una cosa loro, e poi pensiamo insieme come interpretare il testo letterario. Quando entro in classe sono interessato al fatto che ho avanti delle persone vive, e non degli schemi pedagogici. E il mio compito è quello di far sì che durante la lezione tutti insieme facciamo un passo avanti nella nostra crescita. Per cui tutti i piani, le tematiche e i metodi sono una sciocchezza.

Aleksandr Zakurenko.

Com’è diventato insegnante? Ci racconti la sua esperienza e che cosa ne ha tratto di importante.
Sono diventato insegnante per caso. Stavo facendo il dottorato presso l’Istituto di letteratura, un giorno un altro dottorando, che insegnava, doveva discutere la sua tesi e mi chiese di sostituirlo. Era il glorioso periodo del sindaco Lužkov, glorioso nel senso che nelle scuole regnava piena libertà. Entrai in classe (una seconda superiore) per la supplenza e dissi ai ragazzi: leggiamo un po’ di Solov’ev, Leont’ev, Rozanov. Così, presi a parlare loro con linguaggio assolutamente normale di Bachtin, Heidegger, Leont’ev. Oggi alcuni di quei miei primi studenti sono miei amici, professori, candidati delle scienze. Insegnano anche loro, anche all’Università statale di Mosca.

Come mai sono rimasto nella scuola? Il fatto è che circa 8 anni prima, ancora prima della perestrojka, quando avevo appena ricevuto il battesimo, il mio padre spirituale, padre Michail, mentre chiacchieravamo di letteratura aspettando il treno e io osservavo che nessuno capisce il romanzo Oblomov, mi disse d’un tratto: «Se decidesse di fare l’insegnante di scuola, le darei subito la mia benedizione».

Allora, eravamo nel periodo sovietico, una cosa del genere non mi sarebbe neanche passata per la testa, perché mi avrebbero portato difilato al KGB dopo la prima lezione. Invece 8 anni più tardi, con la fine dell’URSS, quando capitai in una scuola mi tornò in mente quella frase premonitrice. E restai.

Cosa succede oggi all’istruzione in Russia, e nel mondo?
Nel mondo non saprei, ad essere sincero. Sono stato all’estero e ho insegnato in Danimarca, Grecia, Serbia, Montenegro e anche un po’ negli USA. Ma è stato tempo fa, e non so come va ora. Ma ho sentito dire che il Processo di Bologna ha distrutto l’istruzione.

In Russia l’istruzione va malissimo. Sia dal punto di vista dei finanziamenti (che sono al livello dell’Africa), sia al punto di vista dei contenuti. Oggi conta non l’istruzione, non il significato ma l’indice di gradimento. Ma questo corrompe gli educatori e influenza in modo deleterio il contenuto dell’istruzione. Inoltre, l’istruzione non può funzionare bene in mancanza di libertà, ossia quando è oberata di relazioni, verifiche, tagli, test e altra fuffa. In certe classi non c’è tempo per studiare, tutto il tempo va via per la preparazione agli esami. Gli unici che vincono in questa situazione sono i burocrati dell’istruzione. Gli stessi che definiscono i criteri, che li verificano personalmente e si autofinanziano. Insomma, l’impostura obbligatoria è il sistema su cui si basa oggi la scuola. Oggi l’insegnante che voglia semplicemente insegnare onestamente e bene ai suoi allievi è un supereroe o un partigiano. E deve nascondere accuratamente quello che fa. E il direttore che lo difendesse andrebbe acclamato con l’arpa e col cembalo.
Perché alle scuole non servono i bravi insegnanti, con i quali sorgerebbero problemi, perché vogliono seguire il proprio programma, mettere i voti come reputano giusto e non come pensa il direttore, eccetera. Alle scuole servono insegnanti mediocri che sappiano stare alla pari coi registri e scrivere il testo delle lezioni con un anno d’anticipo.

Infatti adesso hanno introdotto la «scuola elettronica di Mosca», dove si scrivono gli schemi delle lezioni un anno prima. A mio avviso questo è un segno di incompetenza professionale: se un insegnante sa già quello che farà con un anno d’anticipo vuol dire che non gli servono in classe degli uomini vivi, ma dei burocrati del provveditorato. Un insegnante così andrebbe allontanato, invece per questa robaccia il provveditorato paga dei soldi in più. La cosa peggiore è che secondo questo sistema la persona umana è tagliata fuori dal processo: registro elettronico, nel quale un insegnante elettronico mette dei giudizi elettronici all’allievo elettronico. Un sistema di questo tipo si controlla molto facilmente, perché non ha dentro più niente di vivo. È facile buttarci dentro dei soldi e subito dopo rubarli. Perché i criteri di valutazione dell’efficacia dell’istruzione non sono il lungo e scrupoloso cammino di crescita del maestro assieme all’allievo, ma il gradimento virtuale e le vittorie apparenti, ed è appunto questo il sistema che sta costruendo l’attuale governo. Temo che questo non accada solo nel nostro paese. Ma da noi tutto questo è particolarmente cinico e forzato.

Quando un’università cerca di aprire una cattedra di teologia, di introdurre le discipline religiose, la cosa fa subito notizia e viene attivamente discussa sui social. L’insegnamento dei «Fondamenti di cultura ortodossa» nelle scuole secondarie è ancor oggi una storia infinita che, da una parte provoca un fiume di critiche e derisioni da parte dei laici, e dall’altra fa venire il mal di testa a molti sacerdoti, che sono costretti dai loro vescovi a inserirsi attivamente nelle scuole, talvolta a dispetto delle scuole stesse… Quanto è sensato «iniettare» in questo modo l’ortodossia nel tronco dell’istruzione laica, secondo lei?
Partiamo col dire che la nostra società è incredibilmente incolta e ignorante. Compresi i media, gli insegnanti, e i burocrati. Tanto per cominciare. Secondariamente, la nostra non è una società cristiana: sono pochissimi i praticanti, che aderiscono a una tradizione viva. E faccio un piccolo esempio: ricordo che mi fecero espellere dal dottorato i professori della cattedra di marxismo-leninismo perché mi ero rifiutato di dare l’esame obbligatorio di materialismo dialettico, essendo credente.
Non più di due anni dopo l’intero corpo docente della suddetta cattedra, con in capo il fazzoletto d’ordinanza e facendo ampi segni di croce si recò in pellegrinaggio al monastero di Optina. Gli ex-comunisti che mi avevano scacciato erano diventati d’un botto dei baciapile. Per reazione mi era persino venuta voglia di diventare comunista.

Terzo: noi abbiamo una letteratura, e ancora di più, una storia e una cultura che hanno in sé tutto quel che occorre per parlare di Dio, del cristianesimo ai giovani. Qualsiasi imposizione in questo ambito produrrebbe l’effetto contrario. E poi, per parlare di temi esistenziali seri come il senso della vita, Dio, la morte, la fede, bisogna che ci stimino. E questo è un lungo processo.

Semplicemente andar lì a raccontare cos’è la fede come fosse la tavola periodica degli elementi sarebbe come insegnare marxismo-leninismo. Slogan incartapecoriti.

Io ci penserei molto bene, e comincerei con una serie di conversazioni, o con la storia delle religioni, una materia utile per venire incontro alla nostra totale ignoranza, ma con grande tatto. Solo come materia facoltativa, e solo dove esistono degli insegnanti che riscuotono la fiducia degli studenti, e che grazie all’esperienza personale e alle proprie conoscenze sono in grado di gestire simili conversazioni. Insomma, basta che ci sia un interesse.
Quanto ai sacerdoti nelle scuole, fino al 1917 i preti insegnavano nelle scuole e il catechismo figurava nelle pagelle ma questo non ci ha salvato dalle atrocità verso la Chiesa che sono seguite.

Lo slogan «educazione patriottica dei giovani» oggi si sente dappertutto, dalle tribune politiche fino agli amboni delle chiese, dalle scuole medie ai social… Cos’è, secondo lei, il patriottismo, chi è il patriota? E come si fa ad insegnare a un bambino ad essere un patriota?
Non si può insegnare ad essere alcunché. Si può dare l’esempio. Di solito si impara non dalle parole, ma dalle parole supportate dalle opere. Cos’è un patriota è abbastanza chiaro: uno che ama la patria. Però, era un patriota Bunin e lo era Fadeev. Uno amava la Russia prima del 1917; l’altro quella dopo. Dunque avevano patrie diverse. Oppure si può amare la stessa patria in modi diversi? E chi potrà dire quale amore di patria è quello giusto?

Insomma, tutte queste parole sono delle etichette. Dietro non c’è nulla. Qualsiasi ladro al potere si definisce patriota, e definisce nemico della patria il suo oppositore. Da noi centinaia di migliaia di persone sono state annientate con questa etichetta: nemico della patria. E invece erano patrioti. Per questo, mi sembra, nel mondo attuale l’unico criterio è avere una coscienza, e vivere secondo coscienza. La lingua come denominazione dell’essenza è morta. O perlomeno tutti questi termini: patriota, credente, fascista sono una lingua di etichette, morta. Mentre la lingua vera, la lingua dei nomi e dei significati, resta celata nel rapporto tra gli uomini concreti. Non appartiene più al mondo della grande narrativa.

Tutte queste parole in ambito sociale non sono che elementi di tecnologia politica. La divisione tra liberali e nazionalisti, patrioti e traditori. Le guerre di facebook, le divisioni in campi avversi.

L’uomo è più complesso di tutte queste bolle di sapone. Ho già detto che in realtà non si può insegnare. L’allievo ti può credere se vede che anche tu ami la tua materia, la tua famiglia, la persona concreta.

Il tuo paese. Non so se in questo modo imparerà poi ad amare la patria, perché l’amore, così come le doti poetiche, sono un dono dall’alto. Ma in ogni caso, a te crederà e il suo cuore si aprirà a questo dono. A questo punto non è più affare dell’insegnante, ma della libertà dello studente.

(intervista di Seregej Kruglov per Pravmir.ru)

Aleksandr Zakurenko

Aleksandr Zakurenko, nato a L’vov nel 1962, ha studiato matematica all’Università di Kiev. Nel 1987 si è diplomato all’Istituto letterario Gor’kij, a Mosca. Dopo un anno di insegnamento negli Stati Uniti, è tornato a insegnare letteratura russa nelle scuole superiori di Mosca. È anche traduttore e poeta.

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