6 Maggio 2024

«20 giorni a Mariupol’»: un documentario per non dimenticare

Angelo Bonaguro

«20 giorni a Mariupol’» del reporter e regista ucraino Mstyslav Černov descrive in presa diretta le prime settimane dell’invasione russa nel febbraio ’22. Un documentario importante che prova i crimini di guerra. Intanto Mosca versa miliardi per ricostruire la città, dopo averla ridotta in macerie.

Dopo il 24 febbraio 2022, giorno in cui la Russia ha iniziato l’aggressione all’Ucraina, nella città portuale di Mariupol’ centinaia di migliaia di civili sono rimasti intrappolati per settimane senza i servizi di base. La presa di questa città sul Mar d’Azov era un obiettivo strategicamente importante per i russi, ai quali avrebbe permesso un collegamento via terra verso la Crimea e il controllo del traffico marittimo.

Quasi tre mesi dopo, circa il 70% dei 540mila abitanti era fuggito. Coloro che sono rimasti si sono ritrovati in una città devastata sotto l’occupazione russa, inglobata nell’autoproclamata «Repubblica popolare di Doneck». Nel maggio 2022, il sindaco ha stimato in almeno 22.000 i morti a causa dell’assalto russo.
«All’apparenza, a Mariupol’ sembra tutto normale. Una volta qualcuno mi ha detto che le guerre non iniziano con le esplosioni, ma con il silenzio». Comincia così il documentario 20 giorni a Mariupol’ (2023) del reporter e regista ucraino Mstyslav Černov, che descrive in presa diretta le primissime settimane dell’invasione, e ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali.

M. Černov. (20daysinmariupol.com)

Corrispondente di guerra dell’agenzia Associated Press (AP), Černov ha una lunga carriera come reporter dai fronti «caldi», avendo raccontato i giorni del majdan, i conflitti mediorientali e l’Afghanistan sotto il dominio talebano. Assieme al fotografo Evgenyi Maloletka e alla reporter e produttrice Vasylysa Stepanenko, sono stati gli unici e ultimi giornalisti internazionali rimasti in città, e hanno registrato quelle che in seguito diventeranno immagini simbolo dell’incipiente tragedia, e che rimbalzeranno sui canali tv di tutto il mondo: il bombardamento di edifici civili e ospedali, le fosse comuni, le vittime di ogni età, i profughi interni.

E. Maloletka. (20daysinmariupol.com)

Černov, insieme al team del programma americano Frontline, ha creato il suo lungometraggio in condizioni proibitive: con la corrente e internet a singhiozzo, i primi materiali frammentari arrivano in redazione da un sottoscala tra le macerie di un negozio di alimentari dov’era ancora attiva una connessione. Il resto delle riprese – circa 30 ore – esce dalla città assediata attraverso il corridoio umanitario aperto a metà marzo, nascosto sotto i sedili dell’auto di Vladimir, il poliziotto che capisce il valore del loro lavoro e si offre di aiutarli.

«Quando siamo usciti dall’assedio il ventesimo giorno – ha spiegato Černov al portale Deutsche Welle, – avevo a disposizione circa 30 ore di video, precedentemente ne avevo inviato forse 30-40 minuti. Ci siamo sentiti in colpa per essercene andati, sentivamo di dover fare di più. E allora è nata l’idea di montare un film.

V. Stepanenko. (20daysinmariupol.com)

Perché quando la gente guarda il telegiornale vede 30 secondi, un minuto, ma si tratta solo di spezzoni che non danno il quadro completo. Il film invece dà un contesto, permette di comprendere l’entità della distruzione, della sofferenza attraverso la quale sono passati gli ucraini e gli abitanti di Mariupol’». Perché poi ci sono stati «un ventunesimo, un ventiduesimo, un novantesimo giorno», e per altre località lo stesso dramma continua ancora oggi.

Si fa fatica a guardare 20 giorni a Mariupol’ sino alla fine.

Il 27 febbraio, nei pressi dell’Ospedale n. 2, una discussione tra i reporter e i soldati ucraini che preferiscono non essere ripresi viene interrotta dall’arrivo di un’ambulanza. Evangelina, quattro anni, è stata colpita ed è in fin di vita: Mostragliela a Putin – sbotta un medico infuriato, – «che guardi negli occhi questa bambina, e i medici in lacrime».
C’è un padre che abbraccia disperato la barella insanguinata su cui giace Il’ja, 16 anni, che stava giocando a calcio con gli amici quando è iniziato il bombardamento, e ha perso entrambe le gambe.
E c’è il dolore straziante e profondo della madre di Kirill, 18 mesi, che chiede ai medici come sia stato possibile che non abbiano potuto salvarlo…

«20 giorni a Mariupol'»: un documentario per non dimenticare

(20 Days in Mariupol)

«Mentre guardo tutti questi bambini – commenta il reporter, – penso alle mie figlie. Sono nate in un mondo in guerra, e vorrei poterle rivedere ora».

La presenza dei giornalisti non è di intralcio, anzi è fondamentale – sottolinea Černov – e non è un caso che l’aggressore abbia cercato subito di tagliare le comunicazioni, perché senza informazioni si ottiene da un lato il panico e l’isolamento, dall’altro l’impunità. «È per questo che abbiamo corso tanti rischi per trasmettere al mondo ciò che abbiamo visto, ed è questo che ha fatto infuriare la Russia» che attiva subito la propaganda mediatica: l’ambasciata russa a Londra pubblica due tweet in cui definisce false le foto dell’AP, mentre Vasilij Nebenzja, ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, liquida i giornalisti dicendo: «Chi vince la guerra dell’informazione, vince la guerra».

Per le persone con cui vengono in contatto, i reporter sono fonte di informazione sugli scontri in atto, altri li pregano di filmarli «in modo che i miei familiari sappiano che sono viva». «Siamo stati costantemente sommersi da messaggi di persone che volevano conoscere il destino dei loro cari che abbiamo fotografato e filmato», ha spiegato Černov a Deutsche Welle.

Ma 20 giorni a Mariupol’ non è un’epopea, è il racconto della vita quotidiana di una città sotto assedio, con le sue luci e le sue ombre: «La guerra è come una radiografia – dice un medico a Černov, – tutto ciò che hai dentro diventa visibile».

fossa comune

(20 Days in Mariupol)

Così l’impegno dell’équipe chirurgica che fa nascere una bambina sotto i bombardamenti, «anche se qui non abbiamo un reparto di ostetricia», sembra stridere con le immagini dei civili che saccheggiano i negozi – e non solo gli alimentari: le riprese documentano un adulto che sta portando via… un pallone, e solo per la vergogna lo ributta indietro. O con la scena apocalittica dei volontari che gettano i cadaveri nelle fosse comuni: «Non so di chi sia la colpa, chi abbia ragione, chi ha scatenato tutto questo – esclama un volontario, – ma che siano tutti maledetti».

Il documentario è importante come testimonianza per tutti: «Spero che, se non ora, forse tra qualche anno la fiducia di molti russi che pensano che l’invasione sia in qualche modo giustificata verrà scossa – ha aggiunto il reporter. – Guarderanno questo film e riusciranno a capire che erano immagini autentiche. Perché se lo guardassero ora, non servirebbe a nulla. Rimarrebbero le stesse narrazioni di prima: tutte fake news, tutte bugie, tutte finzioni».

Per la loro incolumità e per preservare tutto questo, a un certo punto si rende necessaria l’evacuazione dei tre reporter dall’ospedale in cui si rifugiano con molti altri che non hanno un posto dove andare. Un’ora prima della partenza, un medico accompagna Černov nel seminterrato dell’ospedale, dove giacciono alcuni cadaveri. Nella semioscurità rischiarata dalla luce dello smartphone si avvicina a un fagottino e lo apre con delicatezza, c’è un’immaginetta di un santo a proteggere il corpicino immobile. «Non posso mostrarti il suo viso… ti abitui a tutto, ma di sera poi non ti esce dalla mente».

(M. Černov, instagram)

«Ricordo ancora il senso di colpa che ho provato quando me ne sono andato – commenta il reporter. – (…).  Se un giorno le mie figlie mi chiederanno: Cosa hai fatto per fermare questa follia, questo sadico virus della distruzione?… Voglio essere in grado di dare loro una risposta».

A quasi due anni dalla conquista e dall’occupazione di Mariupol’ da parte russa, il paesaggio è profondamente cambiato. Nel rapporto (2024) di Human Rights Watch si legge che a metà maggio 2022 erano stati danneggiati il 93% dei caseggiati del centro, tutti i 19 centri ospedalieri e 86 delle 89 strutture scolastiche. Ben presto gli occupanti hanno iniziato a costruire nuovi palazzi, e si prevede di completare la ricostruzione entro il 2025.

Oggi per poter lavorare nel settore pubblico, per aprire un’attività commerciale, o per ricevere la pensione, si richiede ai residenti il passaporto russo. Quelli che ripostavano entusiasti che «a Mariupol hanno riaperto le scuole» non si sono accorti né dei bambini morti sotto i bombardamenti e nemmeno dei programmi scolastici epurati, con libri di testo in cui si nega la storia dell’Ucraina come Stato sovrano. Anche la toponomastica stradale è stata modificata e riportata a eventi e personaggi dell’epoca sovietica, mentre i programmi tv sono unicamente in lingua russa e viene filtrato il traffico internet.

Il 19 ottobre 2022 è stato smantellato il monumento alle vittime dell’Holodomor, lo sterminio per fame di milioni di persone nell’Ucraina sovietica. La portavoce degli occupanti ha definito il monumento un «simbolo di disinformazione politica». Nel frattempo, è stato eretto un monumento ad Aleksandr Nevskij, principe e comandante militare russo del XIII secolo.

ospedale

Il nuovo Centro medico multidisciplinare. (vkontakte)

È l’applicazione pratica del «Russkij mir», il «mondo russo» ideologizzato: ecco i subboniki – i volontari dei lavori socialmente utili – mettere a punto la «nuova» Mariupol’, che diventa il palcoscenico per le marionette del regime, ospiti stranieri compresi; ecco il leader della Repubblica di Doneck Denis Pušilin – inserito da Human Rights Watch tra i 10 personaggi penalmente responsabili di crimini di guerra – consegnare le chiavi dei nuovi appartamenti a chi evidentemente non può che rassegnarsi alla situazione, forse anche con surreale gratitudine se l’amministrazione ucraina non era stata in grado di far fronte alle necessità della popolazione, non disponendo dei miliardi pompati invece dal Cremlino che si stimano (autunno 2022) tra i 12 e i 18 miliardi di euro. Così al nuovo Centro medico multidisciplinare si effettuano trattamenti high-tech a pazienti sottoposti a endoprotesi articolare dell’anca, che «ora godono di ottima salute e si muovono già in modo indipendente».

E nemmeno poteva mancare la ricostruzione degli edifici sacri. La Chiesa ortodossa russa ha appena annunciato corsi gratuiti per i volontari che partecipano alla ricostruzione: «Sono sicuro – ha detto il vescovo Panteleimon (Šatov) – che molti vorrebbero aiutare le persone che sono state colpite dalle operazioni militari. Molti di loro hanno le case distrutte. Conosco un caso in cui una madre ha tenuto una bacinella sulla culla del suo bambino per evitare che l’acqua gocciolasse dal tetto».
Prima dell’aggressione russa, Mariupol’ era una città tranquilla che non aveva bisogno di ricostruire le case e dove le madri non dovevano proteggere i loro bambini con le bacinelle.


(foto d’apertura: AP Photo/Mstyslav Chernov)

Angelo Bonaguro

È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.

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