22 Novembre 2023

Non ci salviamo con l’indignazione

Adriano Dell’Asta

Qualsiasi soluzione torna sempre allo stesso punto: usare correttamente la ragione, rispettare la realtà, correre il rischio del confronto con l’altro.

Dovrebbe essere impossibile confondere coloro che si sentono partecipi delle sorti del popolo palestinese («spodestato di terre, case, speranze») con quanti sostengono il progetto politico e militare di Hamas, («puri contro impuri, “vero Dio” contro infedeli»).

Eppure, questa confusione è costante; con tutte le distinzioni e varianti che possiamo introdurre, ogni istante questa riduzione è proposta e riproposta in tutta la sua semplificante falsificazione. E ciò che è più importante è che non riguarda soltanto i partigiani di Hamas, ma rivela un modo di pensare tipico del nostro mondo e delle sue guerre. Non è forse simile il ragionamento di chi, in nome di una presunta superiorità e purezza religiosa russa, ha preteso di poter giustificare l’invasione dell’Ucraina, arrivando a sostenere apertamente che la questione «non riguarda solo la politica» e ha un significato addirittura «metafisico»?

Dovrebbe essere ovvio che, in entrambi i casi, le ragioni di una buona argomentazione e di un umile sguardo alla realtà vengono sacrificate agli interessi della propaganda. E nel caso dell’Ucraina dovrebbe anche essere ovvio che non c’era nessuna ragione che potesse giustificare l’invasione, salvo un evidente progetto imperiale, ammantato da giustificazioni metafisiche che trovavano spazio solo in una delle parti.

E però, ciò che deve preoccuparci realmente non è soltanto la propaganda di cui ciascuna delle parti si serve (e di cui diventa schiava),

ma piuttosto il fatto che gli interessi geopolitici delle diverse parti si sostituiscano al bene degli uomini reali,

che continuano a morire o anche solo a veder negati i propri diritti. E ancor di più deve preoccuparci il fatto che questa modalità di pensiero si trasferisca con tanta facilità a chi non è neppure lontanamente parte in causa, e diventi il criterio di tante discussioni, dove ciò che conta non sono più né la realtà, né la verità, né la ragione che dovrebbe aiutarci a stare di fronte all’una e all’altra.

Qui la ragione non è più una facoltà che mi pone davanti all’esperienza delle cose per legarla al loro significato (e alla loro verità); il suo esercizio non è più un’operazione che ha sempre bisogno di verifiche e di nuovi contributi, per appurare se il nesso è corretto e se sono stati tenuti presenti tutti i fattori; il mio interlocutore non è più quello che può darmi un contributo decisivo per accostarmi a qualcosa che è più grande di me e di lui, ma è quello che devo schiacciare con le mie “ragioni” perché non ci sia più nulla e nessuno che contrasti con i miei interessi.

In fondo qui non c’è più nulla che esista al di fuori di me: né cose né significato, perché il significato è deciso dal mio arbitrio (cosa mi è utile) e le cose vanno mantenute solo se non mettono in discussione l’interpretazione della mia parte, cioè, nella maggior parte dei casi, il mio interesse.

Così su tutto domina il mio punto di vista particolare e non esistono più né cose né verità; con un corollario importante: in un mondo in cui solo io ho spazio e legittimità e non può esservi nulla sopra di me, resta solo la guerra perenne dell’io con tutto ciò che lo circonda anzi, più che circondarlo, lo accerchia, minacciandolo costantemente. Resta soltanto una guerra continua, che può finire solo in una pace che è la vittoria dell’uno sull’altro, l’annullamento di una parte a opera dell’altra.

Persino la ricerca della pace rischia di diventare non la conciliazione con l’altro, ma la ricerca della sua eliminazione:

non c’è più qualcosa o qualcuno che sia degno di esistere di per sé, ma solo quello che io decido essere tale.

In tutta questa dialettica c’è un elemento che sembra costantemente eluso e la cui assenza denuncia una spaventosa caduta dell’umano: manca un autentico senso di solidarietà, che non è la mancanza del dolore per i troppi morti, ma il fattivo mettersi all’opera perché la violenza e la sopraffazione diventino sempre meno accettabili, perché l’atmosfera che respiriamo diventi sempre più vivibile per tutti. In realtà, il dolore e la protesta per il male che produce tante sofferenze li sperimentiamo, anche sinceramente, ma evidentemente non basta se li trasformiamo in una sorta di tifo da stadio, che sceglie la squadra da sostenere e odia quella avversaria.

In realtà non abbiamo mai visto nell’altro qualcuno di cui non potevamo fare a meno: vale per come si è arrivati a Gaza, rimuovendo il problema palestinese; vale per come si è arrivati all’invasione dell’Ucraina, continuando a non voler vedere il rischio che chi voleva ricostruire un impero faceva correre agli altri e al proprio paese.

Ma questa riscoperta dell’altro sarà necessaria anche per la pace che dovremo costruire: dando a Israele una sicurezza duratura e ai palestinesi una terra in cui abitare, dando all’Ucraina una sicurezza non minore e alla Russia la prospettiva per una grandezza rispettosa delle altre nazioni e dei suoi stessi cittadini.

La soluzione di questi problemi non sarà certo facile e non sarà certo facile trovarla nell’immediato, ma la sua ricerca – e la coscienza della necessità di ritrovare un rapporto con la verità non strumentale e non relativizzabile – sarà un primo passo in questa direzione. Per lo meno, cominceremo di nuovo ad abituarci a non confondere la condivisione dei destini degli altri, che implica sempre un impegno e un sacrificio mai contenti di sé, con l’indignazione apparentemente catartica, che si accontenta di analisi astratte, ma rischia solo di avvelenare l’atmosfera che respiriamo, facendoci credere tra l’altro di aver risolto qualcosa e di essere migliori degli altri.


Foto di apertura: Twitter

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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