11 Maggio 2016

Il vento dello Spirito

Redazione

«Mostrate la bellezza e lo splendore dell’Oriente… non solo la bellezza della liturgia e dell’icona, ma anche la bellezza che appare “quando i fratelli vivono insieme”, come dice il salmista. […]

«Mostrate la bellezza e lo splendore dell’Oriente… non solo la bellezza della liturgia e dell’icona, ma anche la bellezza che appare “quando i fratelli vivono insieme”, come dice il salmista. Fate che il Concilio sia una teofania, un luogo in cui il mondo possa intravedere la bellezza di Dio e arrivare a conoscere il Dio della bellezza. Fate che il Concilio sia un luogo dove non si è protesi ciascuno solo a far valere la propria agenda, ma si è protesi verso l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Fate che il Concilio sia un luogo evangelico prima di tutto e in tutto». È questo il miracolo (espresso nelle parole del teologo americano Adam DeVille) che la Chiesa intera sta attendendo per la Pentecoste, quando dal 16 al 27 giugno prossimo a Creta si riunirà il Concilio panortodosso.

Siamo di fronte a un evento tutt’altro che formale o per addetti ai lavori, che segue a breve l’incontro di Cuba e il viaggio cattolico-ortodosso a Lesbos, riportando al centro dell’attenzione della cristianità un aspetto fondamentale della vita della Chiesa – la sinodalità (sobornost’), cioè l’esperienza dell’azione dello Spirito che in essa prende forma e si esprime. Non è un caso che tra le tante, gravi e diverse difficoltà di carattere politico e sociale che da quasi un secolo hanno più volte costretto a rinviare il Concilio, il metropolita Ioannis Zizioulas abbia coraggiosamente messo in luce la difficoltà interna alle Chiese stesse, il «collasso della prassi della sinodalità tra le Chiese autocefale». In altri termini, ci si è abituati a concepirsi individualisticamente, ad avere come proprio orizzonte unicamente la propria nazione e la propria tradizione culturale, a riporre le proprie speranze di salvezza in avite formule e rituali locali. Così si spiegano, ad esempio, i diffusi fermenti di protesta che attraversano oggi la Chiesa ortodossa russa a causa dell’incontro di Cuba e della prospettiva del Concilio, univocamente interpretati come attentati alla «purezza dell’Ortodossia». «L’ostacolo più importante è rappresentato dalla paura dei cambiamenti – commentava già un anno fa il teologo ortodosso Vladimir Zelinskij. – Nessuna Chiesa vorrebbe staccarsi dalla sacralità del suo passato, dal proprio carattere, dall’orgoglio della storia vissuta con suoi costumi, miti, eroi, dalla sua missione particolare, dalla calda intimità della mentalità nazionale».
Oltre ai «veti politici» e alle stigmatizzazioni di eresia provenienti dai circoli teologici conservatori (tutte le verità dottrinali sono state confermate dai primi Sette Concili e non c’è quindi motivo di indirne un altro, anzi, ogni possibile riforma sarebbe un tradimento), non mancano accuse di segno opposto: si tratterebbe di un «Concilio selfie», di una passerella formale in cui mettere in mostra un’unità solo apparente.

In realtà, per quanto modalità e contenuti della prossima assise possano sembrare (e siano, probabilmente) un compromesso rispetto a più ambiziosi progetti proposti negli anni passati, il fatto stesso della convocazione del Concilio costituisce un gesto rivoluzionario, di incalcolabile portata, che scaverà in profondità nelle coscienze perché rimette al centro due fattori troppo spesso dimenticati, nella prassi di molte comunità ortodosse: la percezione di un’unità che travalica la propria Chiesa nazionale, e il senso della missione, cioè dell’improrogabile dovere di testimonianza che i cristiani hanno di fronte al mondo. Sempre il metropolita Ioannis ha sottolineato: «Vorremmo che il Concilio fosse interessante per il mondo».
Rispetto a critiche e titubanze che si odono da più parti, la Chiesa costantinopolitana, principale fautrice del Concilio, insiste sul fatto che solo l’esperienza diretta di un lavoro comune in spirito di fraternità può aiutare a chiarire l’impostazione teologica e a sgombrare il campo dagli eccessivi timori. «Se consentiremo allo Spirito Santo di agire nel Concilio, alla lunga il processo conciliare contribuirà a ripristinare l’unità, o almeno a chiarire i problemi che hanno spezzato i vincoli della comunione», ha sottolineato il patriarca Bartolomeo rileggendo il lungo travaglio che ha condotto al Concilio nei termini di una maturazione aperta ai venti dello Spirito. Apertura all’altro, al fratello, perché il dialogo con lui è sempre anche una risposta al dialogo divino di cui sono intessuti il cosmo e la storia. Infatti, ha detto ancora Bartolomeo, «il dialogo è la via della Chiesa e della teologia. Dio dialoga creando il mondo, plasmando Adamo ed Eva. Dio ha dialogato attraverso la legge e i profeti. Ha dialogato nel momento in cui il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. E continua a dialogare attraverso i martiri e i santi, nel corso dei secoli e ai nostri giorni».

Il dialogo riprende la sua vera natura di esperienza di condivisione, passa da sterile disputa sulle idee a comunione vissuta pur nella diversità e talvolta nella divergenza delle idee. È ciò che descriveva padre Sergij Bulgakov parlando del movimento ecumenico negli anni ’30 del secolo scorso: «Una comune esperienza spirituale, un’unione in Cristo, l’accadere di qualcosa al di sopra e al di là di tutto quanto può venir stabilito nelle relazioni e nelle risoluzioni». Proprio per questo la sinodalità – il manifestarsi di «Cristo in mezzo a noi», come dice la liturgia bizantina – è per sua natura ecumenica: così possiamo avere l’ardire di affermare che ciò che avverrà nel Concilio panortodosso è un avvenimento che supera i confini del mondo ortodosso per costruire la «Chiesa una», entra a far parte dei «segni inaspettati e profetici» dell’albore di un’unità che molti ortodossi, anche in Russia, hanno cominciato a cogliere con speranza e desiderio.

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