11 Aprile 2016

L’Europa, sazia e disperata

Redazione

In Olanda un referendum popolare ha bocciato l’accordo di associazione tra la UE e l’Ucraina. Dal punto di vista formale la bocciatura non ha alcuna rilevanza, perché il referendum era […]

In Olanda un referendum popolare ha bocciato l’accordo di associazione tra la UE e l’Ucraina. Dal punto di vista formale la bocciatura non ha alcuna rilevanza, perché il referendum era puramente consultivo e quindi il suo risultato non è vincolante.
Da un punto di vista sostanziale, invece, ha una rilevanza che non può essere sottovalutata, anche perché trascende di gran lunga il giudizio negativo sull’Ucraina, che pure c’è stato. Questo giudizio, fra l’altro, è stato sottolineato anche da membri dello stesso parlamento ucraino, addirittura dal deputato Mustafa Nayem, del Blocco del presidente Porošenko: «L’esito è un forte verdetto su Petro Porošenko e il suo governo… non sul nostro paese, non sulla guerra in corso, non sugli olandesi. A dispetto di tutto il suo potere e autorità, il presidente Porošenko ha continuato per due anni a guardare sistematicamente e persistentemente al passato, nonostante le pubbliche proteste e le manifestazioni, ha scelto di lavorare con le cosiddette “élite” e gli oligarchi, e non con la società civile e la nuova generazione».
Il giudizio è chiaro e tuttavia resta parziale se non si considera un altro elemento sottolineato da diversi analisti occidentali e dell’opposizione russa: la percentuale degli olandesi che si sono espressi contro l’accordo di associazione con l’Ucraina corrisponde più o meno alla percentuale degli euroscettici. Quindi il referendum è stato un giudizio sull’Ucraina ma anche un giudizio sull’Europa, sulla sua disponibilità a realizzare una politica di effettiva integrazione anche dei popoli che si trovano sul suo territorio e condividono le stesse tradizioni di rispetto della persona e dei suoi diritti, individuali e nazionali.
All’origine della rivolta del Majdan c’era stato il desiderio di una politica di questo tipo. Il risultato del referendum ci dice che questo desiderio è stato ampiamente disatteso e dimenticato, da una parte e dall’altra.
Dimenticanza (prima di tutto della propria storia) e chiusura alle persone e ai loro bisogni sono del resto una delle caratteristiche dell’Europa contemporanea, «sazia e disperata».
In effetti, mentre si svolgeva il referendum in Olanda, l’Europa era tutta presa dall’altra grande questione di questi tempi: il terrorismo e i continui flussi migratori che l’accompagnano e che secondo taluni l’alimentano, con la minaccia aggiuntiva di rendere sempre più evanescente l’identità europea. Nonostante tentativi come il progetto «Frontiere intelligenti», che ha come punto fermo l’accoglienza dei migranti, le istituzioni europee e i singoli governi si sono mostrati incapaci di concepire una politica coerente e stabile: infatti si è escogitato un accordo con la Turchia che, regolando i flussi migratori, dovrebbe rispondere alla minaccia terroristica e rendere possibile un’effettiva integrazione, ma nel quale più che la solidarietà e il rispetto della dignità umana giocano la paura e l’estraneità nei confronti del diverso: in sostanza si crede di potersi disfare del problema dei migranti affidandone in parte la gestione alla Turchia in cambio di soldi (tanti, che potevano essere utilizzati diversamente) e della riapertura delle trattative per l’entrata della Turchia nella UE.
Alle persone e ai loro destini vengono anteposti calcoli economici e politici, con una mercificazione non meno vergognosa della rinuncia alla propria responsabilità (solo sette paesi della UE si sono resi disponibili ad accogliere stabilmente i migranti) tipica dell’Europa contemporanea, quella dell’Unione e quella che all’Unione vorrebbe rinunciare: accada quel che accada purché siano altri a cavarci le castagne dal fuoco.
Se l’Europa è diventata insignificante nel panorama mondiale, non è per le trame di una o dell’altra delle grandi potenze e, tanto meno, per gli attacchi terroristici, ma proprio per questa abdicazione alla propria responsabilità.
Ma questa non è l’Europa, tanto meno quell’Europa cristiana che molti, a parole, dicono di voler difendere.

Un’immagine completamente diversa ci viene offerta dalle Chiese cristiane, proprio sulle due questioni all’ordine del giorno (Ucraina e questione dei migranti).
Mentre ci si attarda a discutere sui limiti di questo o quel governo e si ripone ogni speranza in qualche uomo della provvidenza, papa Francesco ha indetto una speciale colletta in tutte le chiese cattoliche d’Europa domenica 24 aprile prossimo per esprimere nei fatti «la vicinanza e la solidarietà mia personale e dell’intera Chiesa all’Ucraina». Quasi nelle stesse ore un comunicato del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli confermava che il papa Francesco, il patriarca Bartolomeo e Hieronimus, primate ortodosso di Grecia, si incontreranno il 16 aprile a Lesbos, l’isola dove sono ammassati migliaia di migranti, in attesa di entrare in Europa o di essere rispediti in Turchia o nella loro patria.
A fronte di chi delega ad altri ogni problema, a fronte di istituzioni che avrebbero la funzione di risolvere i problemi della vita civile e si rivelano impotenti, c’è la sfida delle Chiese che ci ricordano nei fatti il volto cristiano dell’Europa.
E non si pensi che siano delle mosse insopportabilmente retoriche, o sentimentali, o utopistiche, estranee alla tradizione cristiana: sono semplicemente la fedeltà alla storia dell’Europa e del suo cristianesimo.
Dopo la prima guerra mondiale, il continente venne letteralmente invaso dalle masse di profughi che venivano dall’ex impero russo, cui si aggiungevano quelle dei prigionieri di guerra che dovevano essere rimpatriati e quelle dei superstiti del genocidio armeno. L’Europa di allora, devastata dalla guerra, seppe accogliere queste masse e furono per lei soltanto una ricchezza: si pensi a cose volle dire per la vita culturale, civile e religiosa parigina la presenza di personalità come Berdjaev o madre Maria (oggi santa Maria di Parigi).
Dopo la seconda guerra mondiale, l’esperienza non fu molto diversa: si trattò allora di aiutare i milioni di profughi che venivano dai paesi finiti sotto la sfera di influenza comunista; tra questi c’erano milioni di tedeschi, «i nemici di ieri» come li definì padre Werenfried van Straaten, quello che poi venne chiamato «padre Lardo» perché non potendo chiedere soldi, si limitò a chiedere quello che sicuramente non poteva mancare nelle case dei belgi e degli olandesi cui si rivolse. Gli olandesi del tempo non si fecero evidentemente i problemi che ci facciamo noi oggi (noi e i loro connazionali); non si preoccuparono di eventuali nemici che avrebbero potuto approfittare del loro aiuto e, da quei primi quintali di lardo offerti proprio per «i nemici di ieri», nacque un’istituzione, l’«Aiuto alla Chiesa che soffre», che esiste ancora oggi e che dimostra come quel movimento del cuore cristiano potesse e possa essere anche una forza istituzionale.

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