20 Dicembre 2019

«Che in mezzo a voi viva Cristo» – La Biblioteca dello Spirito compie 15 anni

Jean François Thiry | Carlotta Dorigo

A Mosca tutti la chiamano «la Pokrovka», un centro culturale unico, che incuriosisce e attira. Dice il direttore: «Quello che ci ha sempre incoraggiato è stato incontrare delle comunità vive per cui il cristianesimo era una vita e non un’ideologia, un baluardo da difendere».

Il 25 novembre 2019 ho avuto modo di partecipare all’incontro organizzato a Mosca in occasione del quindicesimo anniversario di apertura del centro culturale Biblioteca dello Spirito. Una serata all’insegna di testimonianze, fotografie, video, ma anche di canto, musica e convivialità. Di fronte a una sala gremita e affezionata, la mia incapacità di comprendere efficacemente la lingua russa non mi ha impedito di percepire la bellezza di una storia oggettiva che mi precede, che ha continuato e continua miracolosamente a portare i suoi frutti, fino a oggi, fino a me.

Jean-François Thiry, il centro culturale Biblioteca dello Spirito nato a Mosca nel 1993 con lo scopo primario di una diffusione efficace di libri religiosi in Russia, nel 2004 inaugura i locali di una libreria e di un centro culturale. Perché? A che esigenze voleva rispondere? E qual era la sfida allora?
Penso che queste due date – 1993 e 2004 – segnino due tappe importanti del nostro cammino, sempre legato a una contingenza storica, cioè a una realtà che di volta in volta ci siamo trovati davanti. Nel ‘93 padre Scalfi aveva capito che ormai si poteva lavorare in Russia, e ha rischiato, trasferendo parte dell’impegno di Russia Cristiana a Mosca. Dopo la decennale attività principalmente editoriale, è nata in noi l’esigenza di una maggiore vicinanza alla gente.
Ci siamo cioè resi conto che avevamo sì un buon catalogo di libri, ma volevamo incontrare chi questi libri li leggeva; così è nata l’idea di aprire una libreria, a cui poi si è aggiunto un centro culturale. Inizialmente non sapevamo con chiarezza quale attività proporre, ma cominciando pian piano a offrire uno sguardo sulla Chiesa, sul mondo, sulla cultura e sull’uomo, abbiamo scoperto che rispondeva a un’esigenza reale di questa città.

Il direttore del centro, Jean-François Thiry.

Com’è stato percepito questo centro a Mosca, e in particolare dalla comunità ortodossa? Si tratta di un luogo che nasce pur sempre da un’esperienza cattolica…
Innanzitutto, c’è da dire che padre Scalfi non mirava a creare una struttura, ma desiderava restare fedele all’amicizia con delle persone concrete. Per questo ha visto il centro come l’occasione per coltivare questi rapporti in un’ottica di scambio di doni: noi desideravamo proporre la nostra testimonianza cattolica, e d’altra parte, grati di quello che la Chiesa ortodossa ci aveva mostrato negli anni del martirio, lasciarci edificare dalle sue proposte. Oggi, molti ortodossi chiamano questo luogo «il centro cattolico», e non penso sia solo una questione di confessione religiosa.

Credo sia proprio perché il nostro sguardo è veramente cattolico nel senso di universale, e desidera guardare ogni cosa per trattenere il meglio. Si tratta, del resto, di un’educazione che abbiamo ereditato da padre Scalfi e da don Giussani: quella di un’apertura al mondo capace di sentire ogni tentativo umano vero come qualcosa di corrispondente.

Non nascondiamo che abbiamo incominciato nonostante lo sguardo sospetto della Chiesa ortodossa che temeva noi potessimo creare un luogo che favorisse il proselitismo, e della Chiesa cattolica preoccupata che il nostro centro potesse «vendersi» agli ortodossi. All’apice di un momento di tensione che aveva compromesso i canali ufficiali fra le due Chiese, noi siamo nati come centro culturale con tre fondatori: Russia Cristiana, l’allora amministrazione apostolica (ora diocesi cattolica), e la Fondazione Santi Cirillo e Metodio di cui era presidente il metropolita Filaret di Minsk, una delle personalità più vive e aperte del mondo ortodosso, che avevamo avuto la fortuna di conoscere negli anni Novanta.
Possiamo dire insomma che il nostro centro sia stato un unicum nel panorama della presenza cattolica.

Metà anni ’90: davanti alla sede di Dmitrovskoe Šosse, si caricano i libri destinati alla distribuzione.

Dentro l’iniziale incertezza di cui ha raccontato, di che cosa vi siete fidati per incominciare? Com’è stato l’inizio?
Innanzitutto, posso dire che sin dall’inizio siamo stati sostenuti da una certezza di fede che, ad esempio, ha permesso non mancasse mai qualcuno pronto a rialzare lo sguardo dell’altro. Certo, abbiamo vissuto momenti di scoraggiamento importanti, penso in particolare al 2001, quando la creazione delle diocesi cattoliche in Russia ha compromesso il dialogo tra i vertici delle Chiese, e di conseguenza tra le comunità locali ortodosse e cattoliche (ciò si traduceva, ad esempio, nel divieto nelle parrocchie ortodosse di vendere libri cattolici). In quell’occasione, mi è capitato di pensare che un’esperienza come la nostra, nata primariamente per favorire un’amicizia fra le Chiese, era destinata a fallire.

Allora è stato vitale ripartire dalla domanda: «A me come cristiano che cosa interessa? Qual è la mia certezza? Che cosa desidero – comunque siano le circostanze esterne – condividere e testimoniare?».

Sicuramente i primi anni sono stati difficili, anche economicamente; su di me sentivo una grossa responsabilità, perché sapevo bene quanta gente aveva partecipato alla costruzione del centro, conoscevo bene la generosità di moltissime persone che avevano letteralmente dato fondo ai loro risparmi per permettere che questa esperienza potesse esistere. Ma un passo fondamentale è stato capire che il centro non era solo l’opera delle persone che avevano fatto un’offerta, o l’opera di chi lavorava qui, e non era sicuramente la mia opera. Se al Signore questa esperienza poteva veramente essere utile, l’avrebbe sostenuta Lui, dandoci la possibilità di continuare.

Padre Scalfi in un’intervista del 16 febbraio 2014, per augurarvi buon inizio e buon lavoro, impiega queste parole: «Che in mezzo a voi viva Cristo…». Come si realizza oggi questo augurio?
È un punto interessante perché nei nostri uffici quasi tutti sono ortodossi – qualcuno va più spesso in chiesa, qualcuno meno, – ma c’è anche gente in ricerca, che non ha ancora trovato la fede. Dunque, io ho sentito questo augurio come personale, non tanto perché io debba convertire i miei colleghi o i relatori che intervengono al centro, ma perché venga rilanciata la coscienza che devo maturare nel rapporto con queste persone. E in che modo questo si realizza? Innanzitutto, in una fiducia nelle idee e nelle iniziative che vengono dagli altri, come a dire che tutto quello che viene dal cuore, da una tensione dei nostri collaboratori, è per me da valorizzare.
Ad esempio, non di rado capita che anche la contabile proponga serate su tematiche che le interessano, e noi seguiamo lei e la sua comunità dando credito alla sua proposta. In questo senso, Cristo è vivo nel cuore di ogni uomo – non importa che l’abbia già riconosciuto, oppure non ancora – e valorizzare questo cuore, questa iniziativa è per me il modo per vivere al meglio l’augurio di padre Scalfi.

Il messaggio di p. Scalfi del febbraio 2014, in russo, ascoltabile online.

È quello che lo stesso padre Scalfi auspicava quando vi suggeriva di non considerare l’attività di questo centro come una semplice occupazione lavorativa…
Sì. A Mosca ci sono moltissimi centri culturali, anche molto meglio organizzati del nostro, però credo non abbiano il nostro stesso punto di partenza che, ripeto, non è stato un’analisi sociologica più o meno raffinata, ma una sintesi di rapporti, di intuizioni. Quello che ci ha sempre incoraggiato è stato infatti trovare delle comunità vive per cui il cristianesimo era una vita e non un’ideologia, dei valori, un baluardo da difendere.
Proprio questa rete di rapporti è diventata la protagonista di questo luogo: è come se si fosse creato un movimento a slavina che, ingrossandosi, ha dato vita a una fecondità sempre più grande. Diversi centri oggi guardano al nostro con curiosità, ma il problema rimane: se non si riconosce da dove il nostro sguardo può nascere, a lungo andare anche l’iniziativa più bella diventa sterile…

Ci sono stati degli episodi particolari che vi hanno aiutato a maturare questa coscienza?
Potrei raccontarne tanti, ne scelgo uno per me molto significativo: l’incontro con Serafim Saligulin, ora nostro grande amico. Un giorno, mentre discutevo con una persona dopo una serata, si avvicina a me un uomo chiedendomi con insistenza di parlare. Io onestamente l’ho ricevuto malvolentieri, perché in quel momento ero impegnato in un’altra conversazione. Beh, quest’uomo con grande interesse ha iniziato a domandarmi chi eravamo, perché avevamo dato vita al centro, che cosa avevamo intenzione di fare. Lì, ho scoperto che avevo di fronte un sacerdote ortodosso, nostro vicino di casa, che veniva da noi spesso, sebbene non l’avessimo mai incontrato.

È stata l’occasione per capire che avremmo potuto organizzare gli incontri più belli e intelligenti, ma se, come persone, non eravamo pronti ad accogliere chi a noi si avvicinava, tutto rischiava di diventare un’altra ideologia.

Io insisto molto su questo aspetto con tutte le persone che qui lavorano a contatto col pubblico e coi visitatori.

L’inaugurazione, novembre 2004.

A distanza di quindici anni, quali cambiamenti osserva nella vita della società russa e in che modo essi interpellano l’attività del vostro centro?
Negli ultimi cinque anni noto un indiscusso cambiamento nella società russa, la nascita di identità forti che si contrappongono – talvolta violentemente – alle altre. Questo fenomeno di radicalizzazione insito nelle pieghe del tessuto sociale porta inevitabilmente con sé malumore e divisioni.

In questo clima, sono in molti a riconoscere nella Biblioteca dello Spirito di via Pokrovka uno dei rari luoghi dove poter respirare una certa libertà di espressione, tanto che chiedono di intervenire da noi esponenti di gruppi contrapposti, che talvolta addirittura non parlano fra loro.

Negli anni Novanta non ricordo una simile radicalizzazione, riconoscevo piuttosto un grande desiderio e una grande speranza di cambiamento: sembrava che la libertà fosse tornata, che la società e la Chiesa potessero rinascere su nuove basi, ma poi per varie ragioni non è andata così, c’è stato un irrigidimento identitario…

La libertà di espressione che proponete non rischia di diventare ultimamente sinonimo di un relativismo che impedisce al visitatore un giudizio su cosa trattenere e cosa no?
Riconoscere l’importanza della libertà di espressione in un luogo quale la «Pokrovka» non significa affatto incoraggiare un relativismo culturale, bensì promuovere la possibilità di dialogare con una particolare visione delle cose. Ad ogni modo, quando invitiamo come relatori ospiti con pareri diversi, noi siamo presenti, guidando l’incontro oppure intervenendo con domande e osservazioni.
Spesso è più efficace porre interrogativi che favoriscano una riflessione, piuttosto che fornire la chiave interpretativa di una discussione, o suggerire indicazioni puntuali su come pensare. Inoltre, i frutti di un’opera o di un incontro non sono mai in mano nostra.

Così come quando distribuivamo i libri (ne abbiamo distribuiti quasi due milioni in tutta la Russia nei primi dieci anni di attività), non potevamo sapere chi li avrebbe letti e quali cambiamenti avrebbero provocato nel lettore, allo stesso modo oggi non sappiamo come gli incontri possano cambiare il cuore delle persone.

Ad esempio, circa un anno fa, un ragazzo – oggi personalità di spicco della Chiesa ortodossa – mi ha confidato: «Proprio in questa sala è iniziato il mio cammino spirituale: ero qui per partecipare a una serata, le parole del diacono Andrej Kuraev mi hanno commosso a tal punto da farmi prendere sul serio la mia vita spirituale». Racconto questo episodio proprio per ribadire l’importanza di una verifica e di un cammino personali.

Quali nuove sfide si affacciano oggi per un centro come la Biblioteca dello Spirito? Ad esempio, pensa che le nuove generazioni possano giocare un ruolo importante per gli obiettivi futuri del centro? Esiste già un loro coinvolgimento?
Su un piano generale, la sfida che vedo per me è strettamente connessa a quel rischio che padre Scalfi si era già assunto nel ‘93, quando la gente gli diceva: «Lei è pazzo a voler lavorare in Russia, perché non si sa come andrà». Ecco, nemmeno io so come andrà, però credo valga la pena guardare la realtà di oggi per riconoscere quali cambiamenti ci suggerisce. In tal senso, una tra le sfide più urgenti del centro è sicuramente tentare di dare la parola alle personalità interessanti del mondo della cultura che emergono oggi anche tra le nuove generazioni. Ad esser franchi, i più giovani non si avvicinano così frequentemente al centro, al più lo fanno per partecipare a incontri selezionati o specialistici. Tale assenza ci interroga notevolmente circa la nostra posizione rispetto alle nuove generazioni e ai passi da muovere in futuro.
Noi desideriamo creare uno spazio di libero confronto il più possibile attraente per tutti, onestamente, però, la nostra offerta rimane piuttosto classica, e forse mancante di una proposta capace di richiamare i più giovani. Allo stesso tempo, credo sia inefficace porre la domanda in questi termini: «Che cosa proporre per interessare i giovani?». Ricordo infatti una serata organizzata qui al centro su un filosofo parecchio ostico, Merab Mamardašvili, che, nonostante la difficoltà della tematica, ha inspiegabilmente riscosso un grande successo fra i venti e trentenni.

Parliamo dunque di una sfida tutt’altro che banale, però posso dire con certezza che una delle cose che vorrei di meno è vivere di rendita: sarebbe già la morte che incomincia.

Alla Biblioteca dello Spirito potete parlare di tutto? Oppure esiste qualche forma di censura cui dovete sottostare?
Non ci è mai capitato di subire pressioni per affrontare o tacere qualche tema, tuttavia preferiamo avvicinare alcune questioni con una certa prudenza. È chiaro che parlare di politica qui in Russia può facilmente sfociare in tensioni o rotture, perché si tratta di un problema vissuto in modo morboso. Ci è capitato di affrontare temi caldi, quali il patriottismo o il conflitto in Ucraina, ma non ci sembra indispensabile discutere su qualcosa – di cui peraltro fatichiamo a comprendere le dinamiche – che può verosimilmente urtare o creare malumore.
Da qualche anno filmiamo gli incontri per pubblicarli anche online: questo dice del desiderio di non nascondere o tenere per noi nulla, ma di rendere tutto pubblico, affinché possa essere di qualche rilevanza per l’intera società. Il riscontro è stato un seguito importante non solo a Mosca e in Russia, ma in tutto il mondo russofono.

In che misura questo rinunciare a determinate tematiche non è un compromesso, un arrendersi, ma può diventare comunque una proposta di valore?
Mi viene in mente a tal proposito una domanda posta recentemente da Julián Carrón: «Che cosa ha cambiato di più il mondo? Che cosa ha inciso di più sul mondo, che cosa ha contribuito di più al bene del mondo? Il “sì” della Madonna o la “riuscita” di Pilato?». Guardando a tutta la storia della Chiesa che ne è nata direi che la risposta è evidentemente questo «sì» di Maria. La vera questione perciò mi sembra la seguente: noi come pensiamo di costruire di più in questo paese? Criticando il presidente, il sistema politico, le leggi? Oppure offrendo una testimonianza che cambia la persona alla sua radice?

Jean François Thiry

Direttore del Centro culturale “Pokrovskie Vorota”, Mosca.

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Carlotta Dorigo

Nata a Portogruaro (VE) nel 1994, nel marzo 2019 ha conseguito la laurea magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, discutendo una tesi sulle implicazioni etiche e religiose del pensiero politico di Robespierre.

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