20 Agosto 2023
Appunti di viaggio in Cappadocia
Appunti di viaggio in un laboratorio artistico unico, in cui asceti e artisti elaborarono e tradussero in atto con straordinaria creatività le verità evangeliche: le chiese rupestri della Cappadocia, alle quali è dedicato il libro-calendario 2024, “Un paradiso nella pietra”.
A farci conoscere e amare la Cappadocia è stato un grande maestro della Scuola iconografica di Seriate, Adol’f Ovčinnikov, scomparso nel 2021. Per questo motivo, nell’edizione russa del libro-calendario 2024, Un paradiso nella pietra, dedicato alle chiese rupestri della Cappadocia, abbiamo voluto far seguire questa nota al testo monografico di Catherine Jolivet-Lévy, grande studiosa ed esperta del tema.
L’autore è uno dei tanti discepoli di Ovčinnikov – ora affermato artista e fotografo, che ha contribuito alla realizzazione del calendario con preziosi consigli, incoraggiamenti e anche alcune immagini del suo archivio.
Essendo nato nella famiglia di un pittore e diplomato in due istituti professionali, avendo visitato musei e letto libri sull’arte, mi ero naturalmente fatto, come molti miei coetanei, una certa idea dell’arte cristiana. Mi piacevano gli affreschi di Giotto e Michelangelo ma, in linea di massima, l’arte cristiana restava per me, come per molti, qualcosa di lontano dalla vita, una specie di «lingua morta» studiata dagli specialisti per finalità incomprensibili ai profani. I genitori non mi avevano battezzato, in chiesa ero stato estremamente di rado, forse solo qualche capatina nell’infanzia con la mamma.
Molti associano l’arte sacra ai sontuosi interni di grandi basiliche, all’oro, ai volti riconoscibili, «naturalisti» dei santi che fissano con occhio severo e scrutatore chi entra… In realtà, in queste chiese di regola si vede una pittura accademica, abbastanza scura e dozzinale, senza contare che il senso di molti soggetti riprodotti sulle pareti e sulle volte sembra essere comprensibile solo ai loro autori. L’accentuato manierismo delle soluzioni pittoriche della maggior parte di queste raffigurazioni denota una tradizione che non ha alcun nesso con l’oggi, ma ricorda – paradossalmente – le opere del realismo socialista.

A. Ovčinnikov (1931-2021).
Mi sono battezzato a 35 anni e quasi subito ho incontrato il mio primo maestro spirituale, padre Georges Drobot, che con molta discrezione fin dall’inizio mi suggerì di dedicarmi alla pittura sacra. Con mio stesso stupore ne restai affascinato, incuriosito dal mondo che mi si apriva davanti. Nel suo lavoro padre Georges si basava sull’esperienza degli antichi maestri bizantini, mentre la pittura sacra tardiva, che era quella più nota in quegli anni nel nostro paese, non gli interessava. Naturalmente, la mia conoscenza cominciò dalle opere più universalmente note. Solo vari anni dopo, durante il suo ultimo soggiorno in Russia, padre Georges mi fece conoscere un grande restauratore ed esperto di arte cristiana, Adol’f Ovčinnikov.
Ovčinnikov era una personalità fuori dell’ordinario, lo dico senza tema di esagerare. Era un fine conoscitore di musica e letteratura, dotato di una memoria fenomenale, uno storico dell’arte con un’ampiezza smisurata di interessi, un’energia che sembrava inesauribile, e una generosità che lo portava a condividere il suo sapere con chiunque mostrasse un sincero interesse per la pittura di icone e la cultura cristiana. E soprattutto con i giovani. La sua passione e il fascino della sua personalità erano sconfinati e, dopo essere stato con lui anche solo per poco tempo, l’interlocutore cominciava a vedere con occhi nuovi non solo l’icona, ma anche l’arte in generale.
Quando Ovčinnikov nel 1997 invitò me e alcuni altri suoi allievi a una «spedizione» in Cappadocia, accettai con entusiasmo, nonostante tutte le difficoltà del momento e la mia assoluta ignoranza della Cappadocia, delle sue chiese rupestri e delle loro pitture. Nei manuali di storia dell’arte di quarant’anni fa non erano neppure nominate. Ma rinunciare a una simile proposta sarebbe stato un errore imperdonabile. La possibilità di trascorrere due settimane insieme al Maestro mi sembrava un regalo della sorte.
In realtà, il viaggio rappresentò un grande avvenimento, una svolta nella mia concezione dell’arte e – mi sembra – anche della vita.

(© FRC)
Qui era tutto «improbabile» e al tempo stesso persuasivo, affascinante. Una sorta di improbabile paesaggio lunare o marziano. Improbabili le chiese, non costruite all’esterno ma scavate nei rilievi e nelle pareti di profondi canyon. Non ho capito immediatamente che queste chiese non erano tanto architetture, quanto sculture, e per di più «al contrario». Cioè, quanto più gli autori «eliminavano il superfluo», tanto più si ingrandivano le loro opere. Solo a prima vista queste chiese erano costruite secondo una logica architettonica: solo apparentemente una tradizionale basilica a tre navate o una chiesa con cupola impostata su crociera erano tali, perché le sottili colonne non avevano funzioni portanti, e le bizzarre volte e la cupola si congiungevano in costruzioni spaziali estremamente complesse, impossibili da realizzare nell’edilizia ordinaria.
Ma la cosa più sorprendente era la pittura. Incredibilmente varia per stile e colorito, talvolta eseguita quasi unicamente con ocra rossa, era straordinariamente densa di emozioni, opera di una mano sicura e rapidissima. Saltavano immediatamente all’occhio negligenza e «infantilismo», ma anche la misteriosa empatia di queste pitture, che solo a prima vista, in realtà, erano ingenue. Sembrava che si volgessero direttamente a chiunque entrasse, a me personalmente, invitando a entrare in dialogo – o in preghiera – insieme ad esse e ai loro autori.
Un altro elemento importante: queste pitture letteralmente cantano. Entrando in qualsiasi di queste chiese, sovente minuscole, se ne percepisce nettamente la melodia. È la pittura più musicale che abbia mai visto. Posso paragonarla solo agli affreschi della chiesa della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapontovo. Tutto l’insieme ti dà la sensazione di qualcosa di estremamente irreale, inusuale e insieme così familiare, intimo da spingerti fino alle lacrime.
Quanto ho vissuto e compreso in queste chiesette lo si potrebbe chiamare con un termine oggi in voga – restart. Le mie idee sul senso e lo scopo delle pitture parietali, come pure sui modi di tradurli in atto sono radicalmente mutate.
Ad esempio, ho visto che le pitture di un’intera chiesa, magari anche abbastanza grande, possono appartenere alla mano di un unico artista, dalla scelta dei mezzi espressivi, del programma, della gamma coloristica e così via, fino alla tecnica. Noi, invece, siamo abituati a pensare che la decorazione di una chiesa sia sempre opera di una bottega: questo metodo presenta dei vantaggi dal punto di vista della produttività, ma porta inevitabilmente un’impronta di «fabbrica».

Anastasi, Soğanli, XI sec. (S. Šichačevskij)
La storia dell’arte cristiana comincia dalle catacombe, nelle cui cappelle e santuari si celebravano funzioni di suffragio e liturgie. Questa prassi trisecolare di preghiera nascosta agli occhi degli estranei, rispondente alle parole del Salvatore: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo…», in Cappadocia diviene il fondamento di una profonda tradizione spirituale. Sono convinto che il sorgere e il diffondersi dell’idea stessa di chiesa rupestre in tutta l’ecumene cristiana si radichi proprio nelle catacombe romane e nella loro atmosfera.
Durante quell’indimenticabile spedizione Ovčinnikov riconobbe che, dopo le catacombe, il luogo più rispondente allo spirito evangelico gli sembrava la Cappadocia. Oggi, a distanza di quasi trent’anni, capisco a che cosa si riferiva. E capisco la sete spirituale che provano i cristiani di oggi che giungono qui. L’autorevolezza spirituale della Cappadocia nasce anche dalle grandi figure dei Padri che vissero qui: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. San Giorgio, santa Nino evangelizzatrice della Georgia e molti altri grandi santi sono originari della Cappadocia.
Purtroppo, molti restano delusi vedendo i disegni «ingenui», quasi «infantili» esistenti sulle pareti e sulle volte di queste strane chiese. E questo non vale solo per i semplici turisti, ma anche per alcuni storici dell’arte, che scorgono in queste pitture semplicemente una variante provinciale, piuttosto esotica dell’arte sacra. Un atteggiamento strano per degli specialisti, perché a favore della professionalità dei maestri cappadoci testimonia, se non altro, l’elevatissimo livello tecnico della pittura. Nonostante le avverse condizioni climatiche, la maggioranza degli affreschi presenterebbe un ottimo stato di conservazione, se non fosse per la barbarie di quanti si sono succeduti in questi territori.
Mi ci sono voluti anni di ricerche e riflessioni, di analisi per entrare in quello che chiamo «fenomeno Cappadocia». Mi sono messo a leggere le opere dei Padri cappadoci, senza le quali è ben difficile capire il fondamento teologico di queste pitture. Lentamente, in me si è fatta strada la convinzione che millecinquecento anni fa in Cappadocia nacque un laboratorio artistico unico, in cui asceti e artisti, giunti qui dalle più diverse regioni del mondo orientale del tempo (non solo bizantino ma comprendente, ad esempio, anche l’Armenia e la Siria), elaborarono e tradussero in atto con straordinaria creatività le verità evangeliche.
Gradualmente mi si è chiarito che «infantilismo», «negligenza» e impeto della pittura della Cappadocia, caratteristiche di quasi tutti gli artisti del luogo, sono il frutto di una scelta ben consapevole. La mia spiegazione è questa: scopo del lavoro non era realizzare una serie di raffigurazioni, ma un testo liturgico in immagini. E questo testo veniva dipinto al ritmo della liturgia. Allo stesso ritmo, con gli stessi accenti degli inni liturgici. La mano dell’artista obbediva al cuore, interamente immerso nella preghiera della Chiesa. Per questo non si possono assolutamente ritenere queste pitture approssimative, negligenti, e tanto meno ingenue o primitive.
Distanza dalla capitale non significa affatto provincialismo. Nel primo millennio della cristianità la Cappadocia fu un centro spirituale, e non certo una remota periferia dell’Impero.

Deesis, Göreme, metà dell’XI sec. (S. Šichačevskij)
Gli affreschi delle chiese della Cappadocia, come ho già detto, sono musicali. Sono certo che gli autori delle pitture cantassero mentre lavoravano. L’impeto e il ritmo di questa pittura coincidono letteralmente con quelli delle antiche melodie sacre bizantine. La continuità tra le composizioni, l’uso di dimensioni diverse in soggetti contigui ci immergono nell’atmosfera di avvenimenti che si svolgono al di fuori del tempo. Per i nostri contemporanei, non avvezzi a vivere nella dimensione della liturgia, è difficile comprendere questo fenomeno, e tanto più sentirsene parte.
Anche nelle chiese più piccole provo ogni volta la stessa sensazione avvertita una volta ascoltando un potente scampanio. I solenni suoni ti avvolgono completamente, senza assordarti, ma estraniandoti completamente da tutto ciò che c’è intorno. Mi sembra che imparando a «leggere» la bellezza e i significati di queste pitture, noi contemporaneamente impariamo a capire lo stesso Vangelo e l’essenza della liturgia.
Anche la scoperta dell’icona russa, degli affreschi di Pskov, Novgorod e Ferapontovo è avvenuta in epoca relativamente recente, poco più di un secolo fa. Io vedo in queste scoperte importanti indicazioni per l’oggi. A mille anni di distanza, siamo di nuovo al «vaglio delle fedi», come avvenne per i messi del principe Vladimir. Anche noi dobbiamo fare la nostra scelta spirituale. Non abbiamo meno problemi di allora, mentre la fede ardente, dei bambini, nella «vita del mondo che verrà» è andata scemando.
I Padri ci invitano a essere creativi ogni giorno della vita. All’uomo non è dato solo di sbagliare, di dubitare. Ma anche di reagire e aprirsi al nuovo. Anche quando si tratta di una cultura antica, dimenticata da un pezzo.
La percezione della Verità – a un neofita quale ero e sono tuttora, dopo tanti anni di propaganda antireligiosa, – inizialmente sembrava assoluta e definitiva. Ben presto però ho capito che questo era solo l’inizio di un cammino. E voglia Dio che, come il buon ladrone, possiamo riconoscerla e comprenderla almeno nella nostra ultima ora. Il desiderio di accontentarsi di ciò a cui siamo abituati, il timore di fare dei passi, lo vedo come una debolezza, se non come un peccato. Il Vangelo (il cristianesimo?) è perennemente vivo, ogni giorno si rivela in modo nuovo. I suoi appelli esigono una risposta personale, non una lezione imparata a memoria per mostrarsi i primi della classe.
La Cappadocia in questo senso è un eloquente esempio di risposte personali a questo appello. Risposte che sono espressione di una fede personale, sincera, saggia, piena di carità, e che costituiscono un messaggio indirizzato a noi. Speriamo di non rimanervi sordi.
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(foto d’apertura: Uchisar, © FRC)
Sergej Šichačevskij
Nato nel 1956 a Rostov in una famiglia di artisti. Si è diplomato all’Istituto superiore artistico-industriale di Mosca. Ha avuto come maestri l’iconografo p. Drobot (iconografia su ceramica) e il restauratore e storico dell’arte A. Ovčinnikov. È artista e fotografo.
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