11 Luglio 2022

Un «coro» di memorie

Giovanna Parravicini

«Coro moscovita», ambientato sullo sfondo del disgelo chruščeviano, conserva ancora oggi una straordinaria attualità. È il dramma di memorie malate, che registrano i torti subiti individualmente senza accorgersi dei drammi dell’altro e si esauriscono nel rancore e nell’accusa vicendevole anziché comprendere che tutti sono vittima della comune disumanità che ha travolto ogni cosa. Dopo la liquidazione di Memorial, in segno di protesta Ljudmila Petruševskaja ha restituito il Premio di Stato ricevuto nel 2002 per la pièce.

Coro moscovita, scritto da Ljudmila Petruševskaja nel 1984 ma messo in scena soltanto nel 1988 (regia di Oleg Efremov), è stato oggetto di vari riconoscimenti nel 2002, quando è stato rappresentato al Piccolo Teatro Drammatico di San Pietroburgo con la regia di Lev Dodin e del suo allievo Igor’ Konjaev, ed è tutt’ora in cartellone a Mosca (regia di Nikita Kobelev).

Quello che viene da molti definito come il suo capolavoro teatrale è anche contraddistinto da una stretta unione – atipica per la scrittrice – tra l’azione scenica e un preciso contesto sociale e storico, che è quello dello Stato sovietico nel periodo del disgelo chruščeviano. Non a caso, al momento della sua uscita agli albori della perestrojka c’è chi ha visto in quest’opera un riflesso, o se si vuole un tributo pagato alle problematiche contingenti dell’epoca; oggi, a distanza di quasi trent’anni, si riesce meglio a scorgerne il messaggio universale, che ha fatto parlare alcuni critici di «realismo psicologico portato fino al naturalismo ed elevato fino alla metafora».

Il regista Lev Dodin. (wiki)

Sul palcoscenico (nella geniale scenografia di Dodin una costruzione che si sviluppa in altezza, su più piani, affastellando mobili, supellettili, stracci, tra cui i personaggi si muovono scendendo e salendo, infilandosi negli angusti spazi e strisciandone fuori, come scarafaggi o cimici in un vecchio appartamento in coabitazione), risuonano le note di un coro che sta preparandosi a partecipare al Festival Internazionale della gioventù che si svolgerà nel 1957.

La sua polifonia – interpretano Bach, Pergolesi – si intreccia con la dissonante, a volte stridente, intrisa ora di comicità ora di grottesco, potente polifonia di una famiglia, le cui tre generazioni, stipate in un angusto appartamento moscovita, si dibattono, si tormentano e si scontrano, incapaci di riannodare i legami tranciati dalle vicende storiche, che le hanno disperse e separate – interiormente più ancora che fisicamente, geograficamente.

In questa polifonia le note dolenti dello Stabat Mater di Pergolesi (stabat Mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa), si giustappongono alle note della canzone di Dunaevskij «Volate colombe, volate, portate ai popoli del mondo il nostro saluto…»: c’è chi nasce, chi si separa, chi rinfaccia vecchie offese mai dimenticate, chi piange il tempo e gli affetti perduti, chi cerca di cavarsela con qualche ingenua astuzia, combattendo per guadagnarsi qualche centimetro in più di spazio, destreggiandosi tra la miseria quotidiana, l’umidità dei panni stesi ad asciugare, l’odore di bruciato del semolino dimenticato sul fornello ma che bisogna consumare fino alla fine.

Un piccolo universo, descritto in termini quasi epici: «Ecco come viveva la gente. Miseria, una battaglia per ogni metro quadrato. E amava, soffriva, si separava, metteva al mondo bambini».


Il trailer.

Corre l’anno 1956 – è iniziato il processo di destalinizzazione.

Lika e Neta, due anziane sorelle, ultime superstiti di una numerosa famiglia di prima della rivoluzione (erano in sette fratelli), hanno finalmente la possibilità di rivedersi, dopo che Lika si è data da fare per ottenere la riabilitazione di Neta – arrestata e deportata per 15 anni come moglie di un «nemico del popolo», fucilato nel ‘37 – e le offre di venire a vivere nell’appartamento che divide con il figlio Saša e la famiglia (la moglie Era e tre figli).

Il contesto familiare è tutt’altro che semplice: Saša, che era stato ufficiale nella marina, vive da tempo di espedienti e di avventure amorose da cui Era l’ha «recuperato» più volte. Ora, però, la donna con cui ha allacciato una relazione aspetta a sua volta un figlio e Saša, incapace di vedere le proprie responsabilità e di operare una scelta, concepisce l’assurda idea di portare anche lei a vivere qui, nell’appartamento. Mentre l’energica moglie, Era, si divide tra la disperazione per il marito infedele e il puntiglio perché la figlia maggiore, la diciottenne Olja completi gli studi universitari, questa si ritrova incinta.

La vecchia Neta, che rientra insieme alla figlia Ljuba nella capitale dopo anni di lager e confino, ha provato sulla sua pelle fame, freddo, paura eppure è rimasta fanaticamente fedele all’«ideale comunista», continua a voler combattere i «nemici del proletariato mondiale»; vive di rancori incolpando del suo destino non il sistema, l’ideologia, ma coloro che a suo tempo l’hanno «abbandonata», e ora non la accettano nell’appartamento della sorella; in lei non trova nessuna eco l’amara verità, l’amara memoria del passato che ciascuno porta con sé, non trovano spazio alcuno la misericordia e il perdono.

Nelle sue lamentele si avverte una specie di ostentazione, come se la persona valesse proprio in quanto la si calpesta:

«Impossibilità cronica di trovare un lavoro. Lavoravo come scaricatore. Da familiari e amici neppure una riga. Tutti avevano paura di noi, tutti. Eravamo lebbrosi, incurabili. E neanche un rublo. Anche se non eravamo agli arresti, non eravamo più persone».

La pretesa e il rancore si acuiscono nei confronti della figlia Katja che, a differenza di Ljuba, non era stata deportata insieme a lei. Invano Lika cerca di discolparla, di mostrare alla sorella le sventure vissute da Katja, che all’epoca era sola e con una bambina piccola sulle spalle: «Lottava per vivere e cercava di nascondere in ogni modo che i suoi parenti erano nemici del popolo. Voleva tirar su la sua bambina…».

Coro

(imbd.com)

Invano Katja cerca di ritrovare il suo affetto: oltretutto, per causa sua la madre e la sorella sono state dichiarate «incapaci di intendere e di volere». Convocata alla polizia per la loro riabilitazione, come racconta alla zia Lika, si è lasciata prendere dal panico e ha cercato di discolparle facendole passare per mentecatte: «Che ne sapevo che ormai i “nemici del popolo” non esistono più? Quando mi hanno convocato, mi è tornato tutto in mente. Il trentasette. Sei mai stata interrogata, con una lampadina piantata davanti agli occhi?! Io sì, ed ero incinta… E adesso mi convocano, mi fanno vedere la pratica, e la prima cosa che ho fatto è stato cercare di difenderle!
Ma capisci che cosa vuol dire difendere dei nemici del popolo stando in quel posto? L’inquirente mi ha ringraziato, mi ha stretto la mano, mi ha detto che tu le avevi già riabilitate e mi ha accompagnato fino alla porta…».

Nel personaggio di Neta si intrecciano mostruosità, cecità – da un lato – e disperazione, estenuazione, sconfitta, dall’altro. Katja rievoca l’ultimo rifiuto ricevuto dalla madre e dalla sorella, non senza una nota di ingenua comicità:
«Sono partita, sono andata da loro, ma si sono spaventate e non mi hanno aperto. Io parlavo attraverso la porta chiusa, e loro zitte, come topi. Ci hanno dato un appartamento di due stanze, Lika si è data da fare, a Mosca. Silenzio. Sono stata dall’inquirente, mi sono battuta per voi. Silenzio. L’inquirente mi ha detto: da come ha scritto sua mamma non c’è modo di raccapezzarsi – e io ho risposto che siete malate di mente. Silenzio. Ma io sento che hanno fatto un salto, dietro la porta. E continuano a odiarmi».

E ancora, ormai in casa di Lika, un dialogo tra madre e figlia: «Ljuba: “Ascolta, dietro la parete qualcuno sta piangendo… Provocatori. Come facciamo a vivere qui, se piangono dietro la parete. È insopportabile, alla fin fine!”. Neta: “Bisogna chiamare la polizia per questi sfrenati teppisti. È il bambino che piange? Non è che lo stanno ammazzando? Qualcuno sta ammazzando il bambino?”. Ljuba: “Bisogna chiamare il telefono azzurro. Ascolta, no, è lei che piange. Katja piange. Commediante”».

Un «coro» di memorie

(imbd.com)

La porta chiusa, il pianto dietro la parete sono metafore di un’incomunicabilità che raggiunge il culmine nel finale della pièce, con l’astiosa lettera di denuncia che Neta detta alla figlia contro la «corruzione morale» dei suoi familiari – un’apoteosi della «neolingua sovietica» e dell’orrendo equivoco per cui la vittima può trasformarsi in carnefice:

«Ljuba, scrivi.
Al primo segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Caro Nikita Sergeevič! La faccia finita con questo tragico teatro dell’assurdo. Due persone malate sono state buttate sulla strada, e da un appartamento pieno di umidità e di puzza. Ci sono dei parassiti che decidono le sorti delle persone, è gente che non lavora né studia da nessuna parte, e per dissolutezza morale è stato messo al mondo un bambino che può seguire le orme del padre e della madre, e quindi va tolto alla madre. Punto.
Il marito ha abbandonato la moglie con tre figli che sono dei mostri, tirano fuori la lingua, una di loro appena siamo arrivate ha partorito, incontrandosi con il suo concubino in un appartamento svaligiato, perché i genitori sono in Germania – virgola – e fa il bucato di notte, spandendo in tutto l’appartamento l’umidità e il gas provenienti dai pannolini a mollo. Punto.
Nell’appartamento hanno abitato estranei, con trentanove e sei di febbre. Punto. Una vera fogna. Punto. Il taxi ci ha portato per una strada tortuosa per tutta Mosca – scrivi M-ca, per abbreviare. Cerca di abbreviare, abbiamo tante cose da dire…».

Con rara potenza, nella polifonia della pièce teatrale di Ljudmila Petruševskaja emerge il dramma di memorie malate, deformate, che registrano ciascuna i torti subiti individualmente senza accorgersi dei drammi dell’altro

– coniuge, sorella, figlia – e si macerano nel rancore, si esauriscono in accuse vicendevoli anziché comprendere che tutti sono vittima di un male comune, della comune disumanità che ha calpestato e travolto ogni cosa: da questo reciproco dilaniarsi il male reale esce illeso.

Non a caso lo sfondo è il disgelo chruščeviano, in tutta la sua ambiguità, in cui si mescolano echi di nostalgie cechoviane di una palingenesi, ingenuità, comicità e – ancora una volta – incuria del tessuto della memoria del passato:

«Mosca si ingrandisce e si fa bella, si ricostruisce a tutto spiano! Inventeranno qualcosa per eliminare le cimici. Tutti riceveranno un appartamento autonomo. La gente si tratterà sempre meglio! Si andrà in taxi decapottabili! Ma ci pensi? In giro per Mosca, bellissima, che rinverdisce! Butteranno giù l’Arbat e tutto il vecchiume che non serve più…».

Un «coro» di memorie

(imbd.com)

Lika, la protagonista – stabat mater dolorosa – è il personaggio che fa da perno in tutta la girandola di storie, destini, drammi che la circonda, nel suo ostinato tentativo di riannodare i fili strappati degli affetti familiari: tragica e buffa insieme – con il cappotto militare del figlio gettato a mo’ di vestaglia sulla camicia da notte, e in mano un pentolino con gli avanzi di semolino bruciato (che si ostina a mangiare grattando il fondo, memore della fame dei tempi di guerra), intuisce la necessità di un’altra legge dell’esistenza: misericordia, perdono, amore, verità elementari eppure bandite dalla coscienza di quanti le stanno intorno – vittime e insieme ingranaggi del mostruoso meccanismo in cui sono inseriti.

Aiuta la nipote, fa di tutto perché il giovane padre del bambino si inserisca in famiglia. Quando divampa la lotta tra il figlio e la nuora, da un lato, che si sentono espropriati in casa loro dalle nuove venute, e dall’altro la sorella e la figlia, a cui tutto sembra dovuto in forza delle sventure subite in passato, Lika non sceglie da che parte stare, non prova a distinguere ragioni e torti, ma continua ad amare e a stringersi, piena di impotente compassione, a ciascuno di essi.

Ad esempio, cerca di giustificare agli occhi della sorella il comportamento irresponsabile del figlio: «Mio Dio, tutte le famiglie hanno i loro guai. Voi, semplicemente, venendo da fuori li vedete di più, ma noi qui siamo come pesci nell’acqua».

La sorella Neta risponde quando insieme rievocano i giorni dell’infanzia, le filastrocche e i giochi tra fratelli, ma quando si parla del periodo successivo subentra il gelo, nonostante gli ingenui tentativi della sorella di minimizzare: «È di famiglia, questa mania di persecuzione. Adesso va tutto bene. Netočka sarà reintegrata nel partito, Ljubočka nel komsomol…». «A quarantatré anni!», viene ribattuto sarcasticamente a questa uscita di Lika, lasciando scorgere la vacuità delle sue speranze.

In effetti, Lika non si discosta dagli altri personaggi per lucidità di giudizio storico: emerge piuttosto tra essi, senza alcuna retorica o enfasi, per una sorta di tenerezza infantile, di fedeltà a una legge interiore che le detta nel finale l’irrevocabile decisione di andarsene anche lei dall’appartamento: «Non posso restare, hanno cacciato fuori mia sorella. Se sono una persona come si deve… devo uscire anch’io di casa!».

Parlando di Lika, non a caso Dodin ha osservato: «La Petruševskaja ha scritto una specie di concerto per voce solista e orchestra. Nella sua figura si concentra un umano, un comunismo che assume sfumature strane, a volte acquista tinte assurde, ma serba tutto il meglio».

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI
Tags:

Abbonati per accedere a tutti i contenuti del sito.

ABBONATI