9 Ottobre 2023

Le chiavi di casa nostra

Andrej Desnickij

Biblista, traduttore, pubblicista, scrittore, dottore di ricerca in Lettere. Dal 1994 lavora all’Istituto di Studi orientali presso l’Accademia russa delle Scienze.

«Le chiavi della nostra casa le conservo ancora».

Dorothea ne parlava con tranquillità, liberamente, come di una cosa evidente: lei conserva le chiavi di casa sua. Ma perché «ancora»?

«Scusi?».

Il ristorante non era chic ma più che decente e, naturalmente, portava il nome di colui che aveva fondato quella città, il Sacro romano impero, l’Europa come la conosciamo oggi: «Karl der Grosse».

C’era molto rumore, si chiacchierava per lo più in inglese, anche se i colleghi afghani seduti alla mia sinistra conversavano con gli iraniani… probabilmente in farsi. Mentre con l’ucraina che sedeva dirimpetto parlavamo ognuno nella sua lingua e ci capivamo perfettamente. E sapevamo perché ormai non abbiamo più una lingua in comune, e difficilmente l’avremo mai.

Con Dorothea parlavamo in inglese; lei è decano della facoltà di teologia dell’Università di Zurigo. Verso la fine di quel semestre alla facoltà hanno capito che rimanevano dei fondi non spesi e così hanno organizzato una «conferenza espresso», così l’hanno chiamata, «pop-up conference». E hanno invitato esuli lontani da casa, che non possono ritornare: gente proveniente da Ucraina, Russia, Bielorussia, Afghanistan, Iran.

È stato un sorso di normalità nel mezzo di questo mondo pazzo, una conferenza come ai bei vecchi tempi. E non c’era bisogno di nascondere lo sguardo da esule, perché là eravamo tutti esuli. Tranne, naturalmente, gli ospiti svizzeri.

Di fuori rumoreggiava Zurigo, sempre in festa e sempre frenetica mentre nell’attico, sotto delle magnifiche travi di quercia, discorrevamo di teologia e di noi. Una donna iraniana con un volto dai tratti cesellati come fosse uscita da una miniatura persiana, spiegava come si fa a vivere sotto le sanzioni quasi per tutta la vita. E noi ci stupivamo: capita davvero? Sì, e ci si abitua pure. Si può anche fare lavoro scientifico, per quanto possibile, oppure si può lasciar perdere tutto e fare un passo nel vuoto dell’esilio.

Eravamo alla cena di commiato al ristorante, e Dorothea mi stava spiegando qualcosa.

«Scusi?».

«Parlavo della chiave di casa nostra».

«D’accordo, ma non ho capito cosa ne è stato?».

«Della casa? Non lo so. Nel gennaio del ’45 i miei genitori semplicemente hanno chiuso a chiave la pesante porta e si sono portati via la chiave. E l’hanno tenuta sino alla fine dei loro giorni, ed ora ce l’ho io. Una pesante chiave di ferro di una porta che io non ho mai aperto. E così è stato in altre famiglie. La gente se ne andava semplicemente chiudendo la porta dietro di sé».

«Ma lei…».

«Io sono tedesca. I miei genitori vivevano in Slesia, e all’inizio del ’45 sono scappati verso Occidente. Poi quella zona è diventata polacca e loro non hanno più rivisto la loro casa. A che scopo tornare, ormai era tutto cambiato… non so se la casa esiste ancora, e chi ci vive adesso… non ci è rimasta neppure una foto. Ma la chiave, ora la conservo io».

Nel ristorante «Carlo Magno» c’era chiasso, tepore e buon cibo. I camerieri ci servivano caffè e tè col dolce. Il mattino dopo dovevo prendere l’aereo per tornare nella città dove, nel cassetto di una libreria altrui, un po’ ruvido al tatto, stanno appunto le chiavi del nostro appartamento di Mosca.


Foto di apertura: unsplash.com