10 Luglio 2017

Aleksievič: Soli, ma dalla parte del bene

Tat'jana Krasnova

In una società «impregnata di guerra» e divisa fra «i nostri» e «gli altri», l’unica via d’uscita individuata dalla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič , premio Nobel per la letteratura, è la «cultura delle piccole opere».

I cinque libri di Svetlana Aleksievič sono la storia del XX secolo e quella del mio paese, che ha vissuto questi cent’anni assieme al resto del mondo e, al tempo stesso, separato dal mondo. In tutti questi anni i miei compatrioti hanno costruito la Grande Utopia: un nuovo impero con nuove leggi e una nuova morale, con nuovi valori e nuovi princìpi.
Per valutare con obiettività la storia e le lezioni che ci ha lasciato questo impero caduto di nome URSS, storici, antropologi, filosofi, sociologi e psicologi avranno da lavorare e da riflettere seriamente per anni e per decenni. Un documento incredibilmente importante per questo grande lavoro del futuro, è l’«opera polifonica» della Aleksievič, il coro di migliaia di voci che ci parla dalle pagine dei suoi libri.
Sfogliando questa infinita storia di guerra, non troverete fra i suoi testimoni nemmeno un generale. La Aleksievič dà la parola a chi, durante i grandi cataclismi globali, rimane sempre muto: al «piccolo uomo». Non all’eroe ma alla vittima delle grandiose tempeste e catastrofi sociali, che porta sulle spalle la maggior parte del peso.
Sorprende che, sebbene ciò che scrive la Aleksievič sia straordinariamente documentato, preciso e indiscutibile, nessuno dei suoi libri abbia avuto un destino letterario facile. Dal primo in assoluto, scritto nel 1976 e che non ha mai visto la luce,
Ho lasciato il villaggio, che raccoglie i racconti degli abitanti della campagna bielorussa emigrati in città – e che fu proibito dal Comitato Centrale del Partito comunista bielorusso per «incomprensione» della sua «politica agraria» – fino all’ultimo, ciascuno di questi libri ha suscitato una violenta polemica, tanto dolorosa e rovente da far sembrare che i miei concittadini rifiutino categoricamente di riconoscersi in questo specchio, litigando con la propria immagine riflessa.
Che dire, poi, del conferimento del Nobel… Gli echi di quelle liti risuonano ancora oggi su internet…
Eppure, nelle poche e intense giornate di giugno che la Aleksievič ha trascorso a Mosca e a Pietroburgo, c’è stato spazio per incontrare persone per le quali era importante ascoltare la sua voce, accordarsi con quel diapason che per molti sono diventate le sue opere, conoscere, parlare, chiedere consiglio.
Dialogo con Svetlana Aleksievič la mattina dopo l’incontro nel salone del Centro Gogol’.

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Come hanno ascoltato? – chiede Svetlana Aleksandrovna.
In modo straordinario! Ascoltavano immobili, prendevano appunti…
Eppure io non dico proprio niente di speciale. Quel che mi sorprende è che molte persone vengono a questi incontri con una domanda: «Come si fa a vivere?». Vogliono chiedere a me come devono continuare a vivere.

Lo desiderano tanto!
Ma a queste domande una persona può rispondere solo da sé.

Svetlana Aleksandrovna, temo che oggi per tanti questo sia un compito superiore alle loro forze. Di colpo, in molti ci siamo trovati in un campo di altissima tensione sociale e morale, tanto che la voce del semplice buon senso ci sembra una rivelazione. Subissate dalla propaganda attuale, sempre meno persone sono in grado di rimanere a galla e di formarsi un giudizio indipendente. Sto parlando, per esempio, della guerra, che da evento storico è diventata improvvisamente il centro della nostra ideologia, se non addirittura il senso dell’esistenza della nostra società.
Certo, noi siamo gente di cultura marziale, militare. Oggi siamo caduti in questa trappola perché il potere ha usato l’argomento della guerra come una scappatoia, ma per il paese, per tutti, si tratta di una trappola, perché non conosciamo nient’altro. Il fallimento storico della perestrojka ha mostrato che noi non riusciremo a vivere come tutti. La nostra gente non conosce nient’altro, tutta la sua esperienza di vita e l’esperienza della nostra letteratura purtroppo è un’esperienza di guerra. Durante la perestrojka abbiamo tentato di uscirne, però… Non solo siamo stati dei romantici, ma non avevamo neppure idea di cosa fosse la libertà, di come fosse. Perciò non se ne è fatto niente, e tutti sono tornati indietro.

A me sembra che le cose stiano anche peggio. Nei suoi libri lei parla spesso della «banalità del male», del fatto che il male è diventato abituale e quotidiano. Negli ultimi tempi mi pare che ci siamo spinti molto più in là, e che il male, da quotidiano, sia diventato obbligatorio. Sui paraurti delle automobili si vedono degli adesivi con la scritta: «1941-1945: possiamo rifarlo»; si inscenano delle carnevalate inconcepibili, durante le quali gli infanti vengono abbigliati con tutine e berretti militari e portati in carrozzine con la stella rossa e il cannone da carro armato di cartapesta… Cos’è successo ai nostri istinti? La guerra, infatti, è il più terribile dei mali, ma se poi vengono coinvolti anche i bambini…
Sa, probabilmente è emerso dal profondo del nostro essere quello che c’è sempre stato in noi. Questo mi ha colpito anche quando scrivevo il libro Ragazzi di zinco, sulla guerra in Afghanistan. Le madri intuivano molte cose, ma erano così orgogliose che i loro figli fossero là.

E dopo il ritorno dei loro figli in una cassa di zinco?
Allora hanno aperto gli occhi. Ma poi, quando mi hanno fatto causa…

Le hanno fatto causa per calunnia?
Proprio così. Ricordo, una madre in particolare mi ha colpita. Si chiamava Nataša, mi ha raccontato una storia sconvolgente. Aveva un solo figlio, faceva la scambista sulla ferrovia. Aveva cresciuto suo figlio da sola. Diceva: «Ho dato alla luce un uomo che mi amerà, che non mi lascerà e che resterà con me». Il bambino è cresciuto, è andato a scuola, è diventato falegname, e subito lo hanno arruolato nell’esercito. Come poi si è saputo, fino al momento della partenza per l’Afghanistan il ragazzo era rimasto nella dača di un generale per ristrutturarla. Lei mi ha detto che era partito per il fronte senza che gli avessero insegnato neppure a sparare, a lanciare le granate. Naturalmente, lo hanno colpito subito, come una pernice. Durante quella guerra ho visto i mujaheddin prigionieri, erano uomini adulti e forti, che per tutta la vita non avevano fatto altro che combattere. Naturalmente, quel pulcino lo hanno ammazzato al volo.
Mi hanno portato da quella madre mentre era fuori di sé dal dolore. Ricordo che sono riusciti a malapena a far entrare quella piccola bara nella sua stanza di nove metri. È stato orribile. Lei gridava: «Racconta, racconta! Racconta la verità su di lui! Avevo solo un paio di orecchini d’oro, avrei dovuto portarli al commissariato militare».

Per farlo esonerare dalla leva pagando una tangente?
Sì, per farlo esentare. Tanto più che, come figlio unico, non avrebbero dovuto arruolarlo. Qualcuno così è riuscito a scamparla, invece lui l’hanno mandato. Ed è stato ucciso. Allora, arrivo al processo organizzato dai generali, dai comunisti, e vedo questa Nataša. «Nataša, cosa ci fai qui?». Lei mi ha detto: «Ho bisogno di un figlio eroe. Non mi serve un figlio vittima!». Le ho detto: «Nataša, ma io ho scritto tutto quello che tu mi avevi chiesto di scrivere». E lei mi ha risposto: «Ti ho parlato da donna a donna, perché tu mi ascoltassi e mi compatissi!». Capito? E durante il processo è scoppiata una vera guerra civile. Alcuni gridavano che mentivo, altri urlavano: «Ridateci i nostri figli, non vogliamo che muoiano in prigionia!». Era, secondo me, il 2002. Di tante cose allora si poteva ancora parlare ad alta voce. Ma c’erano persone che gridavano che erano dei patrioti, e avevano bisogno di un grande paese.

A un prezzo così alto?
Il prezzo… È interessante la sua domanda sul prezzo. Sa, il fatto è che noi non abbiamo una cultura del prezzo della vita umana. Non so come le hanno insegnato a scuola, ma quando studiavo io, la parola «felicità» non esisteva proprio. Esistevano la lotta, le barricate, la rivoluzione: tutto un frasario non sulla vita e sulla felicità, ma sul culto della morte.
Serve un grande paese, ma a pagare il conto si aspetta sempre dopo. Quando portano la bara… Ma poi, quando la gente si riprende un po’, vuole vedere nei propri figli non solo dei morti ammazzati, ma degli eroi.
Allora, ai tempi di Gorbačëv, c’è stato un breve periodo in cui le cose venivano chiamate con il loro nome. Oggi il potere dice: «Abbiamo fatto bene a entrare in Afghanistan. Altrimenti ci sarebbero entrati gli americani». La coscienza della gente è tornata al punto di partenza.
Non dimenticherò mai quando siamo stati a Ust’-Kut, dove dei giapponesi stavano girando un film su di me, Russia, la storia del «piccolo uomo» (2000), del regista Hidya Kamakura. A Ust’-Kut ci ha portato un autista, un ometto anziano tutto curvo, infelice, continuava a lamentarsi che non lo pagavano e che nella sua vita tutto era difficile e andava male. A un certo punto, mentre siamo seduti a tavola, il regista dice: «Cosa vuole la Russia nel Caucaso? A che pro sta combattendo in Cecenia?». Improvvisamente quell’ometto si è raddrizzato, si è così infuriato che ci ha lasciato in mezzo alla tajga. Ne siamo usciti per miracolo. Per caso sulla strada in mezzo alla foresta stava passando un’auto, tramite la quale siamo riusciti a fare avere nostre notizie, così ci hanno tolto dai guai. Riesce a immaginarselo?

Vi ha scaricato come nemici del popolo?
Se ne è andato così, senza avvisare. Abbiamo finito di pranzare e non l’abbiamo più trovato. Se ne è andato e ci ha piantati lì, capisce?
E poi è successa un’altra cosa. Per scrivere il libro Tempo di seconda mano, ho chiesto a persone di varia estrazione: «Volete vivere in un grande paese o in un paese normale? Grande o normale?». E circa l’80% mi ha risposto «grande». Erano degli adulti a parlare. E i giovani mi hanno detto: «I nostri genitori hanno sperperato le risorse di un grande paese».

Sa, me lo dicono spesso anche i miei studenti. Ragazzi di 17 anni mi raccontano seriamente come si viveva bene in URSS. Eppure, nel libro Tempo di seconda mano si sentono anche altre voci. Un suo personaggio dice: «Nessuno ormai pensa più a grandi e sublimi imprese! Ne abbiamo avuto abbastanza! C’è la voglia di qualcosa di più umano. Di una vita più normale, ordinaria… Alle grandi questioni ci si può pensare di tanto in tanto, sotto l’effetto della vodka».
Sì, c’è questo personaggio. Ma i giovani hanno bisogno di qualcosa di grande.

Ma secondo lei si può togliere dalla testa del semplice «piccolo uomo» questa idea di grandezza? Si può sostituirla con qualcos’altro?
È un problema enorme quello di questo «piccolo uomo». Io lo amo tanto e al tempo stesso lo odio … E temo che questo lavoro sia superiore alle sue forze.

E chi dovrebbe farlo al suo posto?
Penso che dovrebbe farlo un’élite culturale. Ma molti oggi giocano a questo gioco, dicono: «Siamo intellettuali, i vostri piccoli problemi non ci interessano». Sì, un tempo c’era l’intelligencija sovietica, ci sono stati anche i populisti, ma quel tempo è passato e non ci interessa più. A me sembra che in Europa l’élite intellettuale possa permettersi di farlo, perché loro hanno già un meccanismo sociale democratico che funziona. Qualsiasi grande scrittore interessa al pubblico come un mondo a sé, particolare, ma nessuno va a chiedergli come si fa a vivere. In Europa la gente lo sa da sola come si fa a vivere.

È come il famoso prato all’inglese, che bisogna radere per duecento anni. I meccanismi già avviati da lunghi secoli, funzionano da sé…
Eppure… Quando in America è salito al potere Trump, ho pensato: «Dio mio, riuscirà a sopportare un colpo del genere questo meccanismo democratico così ben avviato?». Come vede, abbiamo scoperto che si tratta di una lotta tutt’altro che semplice. E non si sa proprio come andrà a finire.

Sì, ha ragione. Le previsioni politiche non riescono a pronosticare un gran che…
Proprio così. Sulla rivista «Snob» Aleksandr Morozov, un bravissimo editorialista, ha osservato molto giustamente che la maggior parte delle previsioni oggi non si realizza, e l’unica soluzione è analizzare ciò che accade giorno per giorno, e cercare di trarre delle conclusioni ragionevoli. Analizzare, e cercare di capire ciò che sta accadendo.

E tuttavia, se l’élite intellettuale non riesce a proporre alla gente alcun pensiero costruttivo per sostituire la guerra come idea centrale della coscienza umana…
… toccherà a me e a lei fare questo lavoro autonomamente. Nessuno potrà risparmiare alla persona il lavoro personale e solitario sulla propria vita. Sa, oggi è il tempo della solitudine. Se vuoi vivere con lucidità, vivrai da solo. Puoi cercare la salvezza nella religione, nei libri, nelle persone, ma la tua filosofia, il tuo sistema di opinioni te lo devi elaborare da te. L’unico riferimento di importanza capitale è di stare dalla parte del bene.
Recentemente sono rimasta inorridita leggendo le parole del giovane scrittore Prilepin… «Questa è la mia strada, vado a combattere, arriverò fino a Kiev e non avrò pietà neppure dei bambini». Ho pensato: mio Dio, dove siamo andati a finire? Ma dove siamo? Uno scrittore giovane e anche dotato, che abbiamo letto e su cui abbiamo discusso fino a poco tempo fa… guarda ad un tratto cosa gli succede. Mi dicono che fa così perché è un tipo pragmatico, ha tanti figli e ha bisogno di soldi. No, penso che questa storia peschi molto più in profondità…

Certo, quando si ha una bella parlantina, si riesce comunque a guadagnare ottimamente in qualsiasi agenzia di public relations, senza dover passare per forza sulle teste dei bambini. Evidentemente, in questa idea della guerra e dello sterminio di massa c’è qualcosa di straordinariamente attraente…
Tutti e cinque i miei libri sono sulla guerra, e sa cosa le dico? Anche l’arte ha un lato oscuro. Per l’arte sia il bene che il male sono ugualmente interessanti. Posso dire che il male è molto affascinante, molto raffinato, molto magico, ipnotico. E la guerra stessa è un bello spettacolo.

Bello?!
Il passo dall’attuale civiltà computerizzata alla guerra per certi aspetti è perfino naturale. Lei sta seduta davanti al monitor, e premendo i tasti può fare un videogioco di combattimento… E tanti pensano alla guerra come a un’avventura, a un gioco. Finché non vengono ammazzati in modo sporco e terribile, come succede oggi nel Donbass. Forse la guerra fa da catalizzatore di tutto l’odio che si è accumulato nella società. È sempre stato così. Le guerre mondiali sono iniziate in situazioni come quella in cui si trova oggi il mondo. E quando avviene una catarsi, anche la gente per qualche tempo si libera dall’odio.



Svetlana Aleksandrovna, secondo lei la gente ha proprio bisogno del patriottismo?

Innanzitutto lei sta parlando con una pacifista convinta. E inoltre, dopo l’incidente alla centrale nucleare di Černobyl’ e dopo il mio libro su Černobyl’, non accetto assolutamente una categoria come quella del patriottismo. Ricordo la «zona morta» di Černobyl’, ci sono andata molte volte. Lì ti senti il rappresentante non di una cultura, non di una nazionalità, ma del genere umano. Lì percepisci una parentela con quel mondo che abbiamo sempre ritenuto secondario rispetto a noi stessi. Lì nasce una parentela del tutto nuova.

Preghiera per Černobyl’ è il libro che preferisco in assoluto. Ci sono alcuni episodi, davanti ai quali tutte le volte scoppio in singhiozzi… ad esempio l’episodio del gattino. La storia di una vecchietta che si è rifiutata di lasciare la zona contaminata e vive lì da sola, con la sua mucca e le sue galline. A un certo punto nel villaggio abbandonato incontra un gatto domestico inselvatichito, terrorizzato, che vive sotto la struttura di travi di un negozio deserto. E la vecchietta giorno dopo giorno va dal gatto per cercare di convincerlo: «Vieni a vivere da me, ho il latte, ti darò del lardo!». E finalmente il gatto acconsente e va a casa sua. Ma a nuove condizioni. Alla pari. Come un amico e un fratello.
Sì. Non ricordo se l’episodio che ora le racconto è rimasto nel libro o se l’ho tolto, ma una volta sono arrivata in una di queste case della zona contaminata di Černobyl’ e non credevo ai miei occhi: in una mangiatoia ci sono cinque ricci che stanno bevendo del latte. Chiedo alla padrona di casa: «Cosa sono?», e lei: «Sono dei ricci. Ora finiranno di mangiare e se ne andranno. È arrivata qui una gazza e le ho dato da mangiare. Alla sera veniva un lupo». Parlava di tutti questi animali come dei suoi vicini di casa. Era tutta un’altra logica.

Ma c’è proprio bisogno che tutto vada in fumo perché la gente capisca qualcosa?
Sa, quello di cui c’è bisogno è rendersi conto che la vita ha un valore, e non solo la vita umana, ma anche quella di qualsiasi animale e di qualsiasi uccello. La vita in generale. Ma in una cultura militare non c’è niente di tutto ciò: non c’è neppure l’uomo, ci sono solo «i nostri» e «gli altri».

Ecco cosa mi colpisce della storia dell’incidente di Černobyl’… Subito dopo la catastrofe sono stati fatti i primi tentativi di rielaborare quello che era accaduto. Sono uscite le memorie dei liquidatori, la commovente opera teatrale di Gubarev Il sarcofago… Era un periodo in cui sono stati raccolti fatti e testimonianze. Il suo libro, a mio avviso, è stato un tentativo di rielaborazione. Non so se sbaglio, ma secondo me il processo di rielaborazione si è fermato a questo suo libro.
All’inizio si è trattato di una rielaborazione militare. Sa, l’incidente ha colto il mondo di sorpresa. Noi vivevamo nel nostro vecchio, abituale sistema di coordinate. Nessuno era pronto a un fatto del genere. Neppure la cultura era pronta. Quanto accaduto esigeva una nuova gerarchia di valori, nuovi concetti, nuovi termini. I primi giorni nella zona attorno al reattore hanno radunato dei soldatini con i mitra. A chi avrebbero dovuto sparare? Poi sono arrivati dall’Afghanistan degli elicotteri militari a sorvolare la zona. Militari, appunto. Cos’erano venuti a fare? Chi avrebbero dovuto bombardare? Forse le particelle alte? Per primi sono arrivati degli alti funzionari da Mosca, pretendevano di essere portati sul luogo dell’incidente, ordinavano: «Portatemi, voglio vedere tutto con i miei occhi!».
Le prime notti è stato uno spettacolo tremendo. Tremendo e affascinante. La gente portava i bambini a vedere. Sa, il male e la bellezza spesso vanno a braccetto. Era molto bello. Bello da morire.

Ho visto quelle fotografie, quel luccichio sopra il reattore…
Sì, era così affascinante. Era chiaro che si trattava di qualcosa di straordinario, che non c’era mai stato prima. Ma al suo stadio attuale l’uomo si è tirato indietro. Siamo solo riusciti a sapere che non sappiamo nulla.

Nel suo libro c’è un’altra storia che mi ha commosso. Quella di una donna, moglie di uno dei primi liquidatori che senza alcuna protezione, a mani nude, hanno rimosso le scorie radioattive dal tetto del reattore esploso.
Sì, è una delle prime storie.

La donna fa irruzione nella corsia dell’ospedale dove è ricoverato il marito, e non vogliono lasciarla passare perché lui, di fatto, non è più un uomo ma un oggetto con un potenziale radioattivo mortale. Non il padrone del mondo, non il dominatore della natura, ma un oggetto contaminato come può esserlo un albero o una pietra. Proprio questa trasformazione dell’uomo nell’oggetto e al tempo stesso nel soggetto della catastrofe, è un elemento terribilmente importante per rielaborare quanto accaduto, a mio avviso.
Purtroppo, non so per quale motivo, i nostri filosofi hanno rinunciato a comprendere questa tragedia. Una volta abbiamo preso in esame questo problema con il filosofo francese Paul Virilio. Anche lui ha riconosciuto che non era in grado di comprendere quanto accaduto. Ha detto: «Lei non è un filosofo, ma capisce le cose più a fondo dei filosofi, lei è stata là, l’ha visto con i suoi occhi. Ma io come filosofo puro mi trovo davanti a un oggetto mai studiato. Non ho in mano un sistema di categorie per studiarlo».

Ho letto tanti libri su Černobyl’, ma non ho mai trovato un tentativo profondo di elaborare questa catastrofe. Forse non ce ne sono?
Nemmeno io ne ho trovati. Sono andata in Giappone, a Fukushima, ho parlato con la gente, ma anche loro continuano a fare riferimento all’esperienza di Černobyl’ e a nient’altro, stanno ripetendo la stessa nostra esperienza. Certo, loro hanno un altro approccio alla morte e alla vita, è una cultura particolare. Tuttavia, i loro liquidatori-kamikaze sono andati a morire consapevolmente. È stato spiegato loro onestamente cosa li aspettava.

Černobyl’ è stata e resta una lezione terribile per l’umanità.
Nel nostro comune paese è la storia di due catastrofi parallele: l’incidente alla centrale di Černobyl’ e il crollo dell’URSS.

Proprio di questo periodo tratta il suo ultimo libro Tempo di seconda mano. Nella prefazione lei comincia il discorso dicendo che noi, nati e cresciuti in URSS, abbiamo in comune un particolare approccio verso la morte.
Purtroppo abbiamo dei grossi problemi nel modo di percepire la vita e la morte. Ne ho parlato molto con la gente. Si tratta di categorie filosofiche importantissime. Purtroppo, la cultura militare sta cementando la coscienza al punto che non le permette di andare oltre. Tutto è già incanalato in questi solchi, e uscirne per trovare nuovi spazi è praticamente impensabile.

In questo stesso libro ho trovato una stupenda citazione di Šalamov: «Ho partecipato a una grandiosa battaglia persa, combattuta per un autentico rinnovamento della vita».
Sì. Vede, quest’uomo ha vissuto la terribile esperienza del lager… Eppure, ha scritto proprio così.

Ecco quello che per me è importantissimo capire: anche noi di fatto abbiamo partecipato a questa stessa battaglia persa.
Noi non avevamo più la fede che aveva la gente di quel tempo.

Sa, Svetlana Aleksandrovna, anch’io sono un «piccolo uomo», e nel suo libro ho trovato un racconto che parla di me. In questo racconto mi chiamo Anna Il’inična, e la mia voce risuona a pagina 99… Si parla dell’agosto 1991, del tempo in cui io e Anna Il’inična credevamo all’«autentico rinnovamento della vita». Mio marito era fra coloro che accerchiavano la Casa Bianca, lui e i suoi amici erano pronti a morire sotto i carri armati. Ricordo quella Mosca, dove migliaia di persone piangevano di gioia quando hanno tolto dal piedistallo il monumento a Dzeržinskij.
Si dice che l’hanno già rimesso in piedi.

Sì, non è più steso a terra. È già in piedi e pronto a tornare dov’era prima. È in forma come non mai… Chissà dove abbiamo sbagliato?!
Secondo me, non avevamo idea di cosa fossero la libertà, la vita nuova. Tutto quello che sapevamo fare era fantasticare seduti in cucina. Il celebre pittore non conformista Il’ja Kabakov ha detto giustamente: «Quando combattevamo contro il mostro comunista tutto era chiaro e comprensibile. Dovevamo sconfiggerlo. Lo abbiamo sconfitto, ci siamo guardati intorno: abbiamo scoperto che bisogna vivere con degli esseri ignobili. Ma come si faccia a vivere con questi esseri ignobili, non lo sappiamo».
Ci siamo scoperti del tutto impotenti, e non abbiamo retto allo scontro con i malviventi, con quelli che hanno in mente solo i soldi. «Pensa un po’ – ci hanno detto, – avete letto Hegel ma non sapete stare al mondo!».
L’esperienza di questa nuova vita non c’era né nella nostra cultura, né nella nostra letteratura.

Che fare, allora? In cosa sperare?
Solo nel tempo. Ora stiamo tutti vivendo un momento difficile. Siamo tornati a un clima da medioevo, in cui la società è impregnata di guerra, divisa fra «i nostri» e «gli altri».

C’è secondo lei una via d’uscita? Perché io sono venuta da lei con una domanda: cosa posso fare? Svetlana Aleksandrovna deve sapere in che modo devo continuare a vivere.
Facendo la sua piccola opera. Sebbene Čechov deridesse la «cultura delle piccole opere», non vedo altra via d’uscita. Se ognuno cercherà di compiere la propria piccola opera buona, potrà formarsi una catena, uno spazio di bene. E tuttavia c’è da sperare anche nel fatto che noi facciamo parte di un mondo collettivo, globale. Da cui non riusciremo a isolarci.

fonte: Pravmir.ru, foto nel testo di A. Danilova

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Tat'jana Krasnova

Docente presso la facoltà di Giornalismo dell’Università Statale di Mosca Lomonosov, coordinatrice dell’Istituto di beneficenza per bambini “Una busta per Dio“.

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