15 Giugno 2017

Un bambino grande come un uomo

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

Un amico mi ha passato un brano di un’intervista al regista russo Aleksandr Askol’dov, realizzata dalla slavista francese Cécile Vaissié. Vale la pena di leggerlo:

«Ecco quello che è per me lo stalinismo in concreto. Mi sono svegliato una notte. La luce del corridoio era accesa. C’era della gente, era gente dell’NKVD che era venuta per arrestare mia madre. Era appena passato qualche mese dall’arresto di mio padre. Nei mesi trascorsi, mia madre aveva sicuramente atteso che l’arrestassero a sua volta. Era la primavera del 1938, quattro mesi dopo.
Mia madre era molto bella, una donna molto intelligente, con due occhi stupendi. Non avevo mai visto nuda mia madre, era una cosa che non si faceva. Ho aperto gli occhi e ho visto mia madre che chiedeva a quella gente di voltarsi perché si potesse vestire. Doveva andare in bagno. C’è andata. Due di questi uomini stavano là davanti, sorridevano e tenevano la porta aperta: la guardavano andare in bagno. E dicevano: “Fa niente, fa niente… Dovrai farci l’abitudine!”.
Per me questo è lo stalinismo. Allora ho capito tutto.
Mi ha abbracciato e mi ha detto che sarebbe ritornata presto. E poi se n’è andata. Ho sentito uno di quegli uomini dire a un altro: “Portala tu e poi torna per il bambino”. Ho sentito e ho capito tutto. Mi sono alzato. Allora avevo due problemi [Askol’dov aveva cinque anni]. Non sapevo fare i nodi ai lacci delle scarpe e non sapevo aprire la nostra porta. Mi sono vestito, ho messo le scarpe e ho fatto i nodi ai lacci delle scarpe: c’ero riuscito per la prima volta nella mia vita. Ho spinto una sedia, sono salito in piedi su quella sedia, ho aperto la porta e me ne sono andato.
Era primavera a Kiev. Dovevano essere le quattro o le cinque del mattino. Era ancora molto buio e avevo tanta paura. Camminavo in mezzo alla strada, dove c’era più luce. Era primavera, e a Kiev c’erano tanti fiori, tanti ippocastani in fiore con un odore dolce dolce. E ancora oggi non posso sopportare questo odore.
Me ne sono andato e ho camminato, camminato, camminato. Quasi per istinto sono arrivato a una casa. Non sapevo neanche se fossero amici dei miei genitori e quanto lo fossero. Mi ricordavo un uomo semplice, un contabile, credo, una famiglia di ebrei. Sapevo che eravamo andati a trovarli. Me lo ricordavo perché ci avevano fatto dell’oca e, dopo quell’oca, la mamma era stata male. Non me l’ero dimenticato. Ed ero andato là. Ero troppo piccolo per arrivare al campanello. E allora ho picchiato alla porta con i piedi. La porta si è aperta ed era un grande appartamento in coabitazione. Avevano due stanze e due o tre figlie. E mi hanno nascosto, ho vissuto da loro. Non saprei dire per quanto: un mese o due o tre. Non pochi giorni comunque. Non so».

Ma in realtà non importa sapere altro, se non che sullo sfondo di questa tragedia e della disumanità che la produce si staglia un’umanità nella quale il dolore inerme di un bambino diventa la potenza di un uomo compiuto. Tutto volevano togliere a questo ragazzino: il senso del pudore, i legami naturali, il senso di una giustizia in cui trovare riparo, in una parola tutti i sentimenti morali che costituiscono un uomo; e lui tutto questo ritrova, con una madre di cui conserverà per sempre un’immagine verginale e con dei nuovi genitori che gli mostreranno in atto una giustizia diversa.
Modo diverso di ricordare sia dalla vendetta (“adesso diciamo tutto e facciamo i conti”) sia dalla comoda relativizzazione (“era una buona idea, peccato che l’abbiano applicata male”): qui tutto viene detto e non può che essere così, deve essere così se non vogliamo cancellare dalla storia i volti dei suoi attori; ma il dolore, che nasce dalla tragedia e che continua ancora oggi (al punto che non si sopporta un odore così dolce come quello degli ippocastani), non cerca di fare giustizia di malvagità e tradimenti: il padre di Askol’dov era pur stato un eroe della guerra civile, che, ovviamente, aveva combattuto dalla parte dei bolscevichi nel cui mito aveva creduto. Quel dolore genera piuttosto un nuovo cammino, il bisogno di un nuovo cammino e di una nuova libertà. Forse varrà la pena di ricordare che, divenuto regista, nel 1967, Askol’dov realizzò un film, La commissaria, ispirato al racconto di Grossman Nella città di Berdičev. Grossman era un autore dannato: il film venne subito proibito e Askol’dov venne messo da parte, come il film, per una ventina d’anni. Ma la libertà si era compiuta ancora una volta: il film vinse poi l’Orso d’Argento al festival di Berlino del 1988.