3 Febbraio 2020

Uscire dal gioco

Redazione

A tanti sembra che lo scontro sia la massima prova di attaccamento alla verità. Proviamo invece a verificare se l’irrigidimento ideologico non ci impedisca di difendere la verità.

Alcuni giorni fa è morto improvvisamente a 51 anni un sacerdote ortodosso moscovita, padre Vsevolod Čaplin; sicuramente una personalità fuori dal comune. Da giovane era stato vicino al mondo degli hippy e andava a predicare sui boulevard, recuperando tanti ragazzi. Condivideva con un gruppo di amici la speranza nel riscatto della Chiesa ortodossa dal controllo dello Stato.

Poi, nel 1990 era entrato al Dipartimento patriarcale per i rapporti esterni, facendo una carriera folgorante e cumulando cariche, sino a diventare nel 2009 presidente del Dipartimento sinodale per i rapporti Chiesa e società e, in pratica, portavoce del patriarca Kirill. In quegli anni aveva progressivamente cambiato posizione, radicalizzandosi in senso conservatore ed antiecumenico, e auspicando un legame sempre più stretto tra Chiesa e Stato. Infine, nel 2015 era stato allontanato da ogni carica senza spiegazioni ufficiali. Aveva obbedito, ma da allora le sue posizioni erano diventate ancora più fondamentaliste.

Padre Vsevolod Čaplin (1968-2020).

Oggi lo ricordano in molti, e tutti unanimemente parlano del suo percorso tortuoso. Solo che c’è chi ricorda con affetto il suo slancio evangelico dei primi anni, e chi rimpiange il suo impegno antiecumenico e antimodernista della maturità. Quello che per alcuni è motivo di scandalo per altri è motivo di ammirazione, e viceversa. La sua figura in qualche modo ha messo in rilievo la polarizzazione presente all’interno della comunità ecclesiale. Una polarizzazione che conosciamo bene anche noi in Occidente, nella Chiesa cattolica, e che sembra irrisolvibile sino a farci disperare della verità.

L’ultima parola su una figura enigmatica come padre Vsevolod non potrà mai dirla nessuno. Tanto più se cerchiamo di misurare il bene e il male che erano in lui con un metro «politico». Non a caso, accanto alle invettive nei suoi confronti, di una parte o dell’altra, continuano a pervenire testimonianze personali di affetto e di riconoscenza che non sapremmo come inserire nella sua immagine pubblica di sacerdote politicizzato. Viene in mente la frase di Dmitrij Karamazov:

«L’animo umano è immenso, fin troppo, io lo rimpicciolirei».

È l’incommensurabilità del cuore umano di cui diceva Dostoevskij, che richiederebbe una posizione aperta, comprensiva, non però nel senso di un relativismo che nonostante tutta la disponibilità a non rompere con gli altri finisce per non incontrarli mai, perché semplicemente non esiste un terreno comune sul quale incontrarsi, un attaccamento alla verità così solido da non temere nulla, da non far dipendere la vittoria della verità dalle nostre virtù.
Perché allora il relativismo si muta facilmente nel suo contrario e si trasforma in una mentalità categorica, divisiva, che trova nella contrapposizione la sua espressione preferita. Quasi che scontrarsi sia la massima prova di attaccamento alla verità.

Questa logica radicale che divide soltanto si sconfigge nel momento in cui rinunciamo ad avere il monopolio della verità e alziamo lo sguardo. Cosa possiamo fare quando la realtà ci mostra che posizioni inconciliabili coesistono all’interno di una stessa Chiesa – o una stessa società civile – come il nazionalismo e l’accoglienza, per citare solo un esempio? Possiamo innanzitutto provare a verificare se l’irrigidimento ideologico non ci impedisca di vedere e difendere la verità. E se la contrapposizione non abbia l’effetto di moltiplicarsi all’infinito e di aumentare le distanze.

Non si tratta di trovare delle ragioni che la menzogna e il male non hanno, ma di chiedersi perché il bene e la verità hanno smesso di essere affascinanti e di mostrarne così le ragioni; si tratta di ritrovare quelle ragioni innanzitutto per noi, di ritrovare il fascino del bene e della verità che ci hanno conquistati non perché li possedessimo, ma come qualcosa con cui potevamo cominciare a guardare le cose senza averne paura e senza avere paura di perderle, senza la paura (la reattività) che porta alla violenza difensiva. E a questo punto potrebbe nascere un’atmosfera diversa, nella quale la verità smette di essere uno strumento di divisione e torna ad essere un’occasione di incontro, una via per cominciare a vivere.

Quello che vale nei confronti della persona, può valere anche sul piano politico. Dai tempi del dissenso abbiamo imparato che era possibile scendere in piazza per protestare e criticare, senza cadere nella logica della pura contrapposizione. Già allora i dissidenti sapevano che senza un punto propositivo avrebbero finito per essere lo specchio rovesciato del potere che combattevano: sapevano che vivere nella verità, vivere senza menzogna non significava la ricerca e la denuncia del nemico, qualcosa che avrebbe reso insostenibile il peso della resistenza al male e avrebbe poi avvelenato la stessa vittoria.

«Cosa fareste senza “i nemici”? – si era chiesto Solženicyn una cinquantina d’anni fa. – Senza “nemici” non potreste addirittura più vivere, perché l’odio, un odio che non la cede in nulla all’odio razziale, è diventato la vostra sterile atmosfera. Ma in questo modo si perde il senso dell’umanità, una e indivisibile, e si accelera la sua rovina. Se domani si fondessero i ghiacci del solo Antartico e tutti noi ci trasformassimo in un’umanità che annega, a chi sbattereste in faccia, allora, la vostra “lotta di classe”. Non parlo poi del giorno in cui gli ultimi dei bipedi vagheranno sulla Terra contaminata e si spegneranno. È tuttavia il momento di ricordare che la prima cosa alla quale apparteniamo è l’umanità».

Anche oggi in Russia, come in tutto il mondo, c’è questo rischio e questa via d’uscita: per l’opposizione ormai è quasi di rito scendere in piazza e protestare contro quasi tutto ciò che viene dal governo, ma un punto propositivo spesso non si vede; non è detto che qualsiasi protesta, ancorché legittima, sia automaticamente utile e costruttiva. Esiste la tentazione di cedere alla pura contrapposizione, e la povertà di contenuti positivi finisce nel tempo per segnare pesantemente l’incisività dell’opposizione.

All’interno del movimento attuale ci sono però delle cerchie consapevoli di questo pericolo, che evitano il circolo vizioso della pura protesta. Giorni fa Svetlana Panič è scesa in strada da sola con un cartello in difesa di Jurij Dmitriev, l’uomo che ha scoperto le fosse comuni di Sandarmoch e oggi è sotto processo. È stata la sua «iniziazione al picchetto politico», e nel compiere quel gesto si è resa conto di com’è facile sentirsi feriti dall’indifferenza e magari dal disprezzo altrui, e quindi reagire con la stessa moneta. Quasi che il picchetto, invece di essere un’occasione per avvicinare la gente, diventasse l’affermazione orgogliosa di una superiore coscienza civile.

Per rompere questa logica Svetlana ha fatto un passo fuori dal sistema delle contrapposizioni, introducendo un fattore nuovo: «Oggi ho toccato con mano quello di cui mi parlava l’amica Ljubov’ Summ: che stare in mezzo alla via singolarmente (ma non soli!) con la foto di qualcuno, o con una frase, è un gesto più che politico, metafisico (scusate se la parola dà fastidio a qualcuno). È la condivisione che sfonda la fitta cortina dell’estraneità. Una testimonianza nell’epoca della non testimonianza. È un rituale che libera la memoria e ci riporta sulla solida terra del reale. È un appello dell’uomo all’uomo».

Abbonati per accedere a tutti i contenuti del sito.

ABBONATI