16 Gennaio 2019

Le inutili lezioni della storia

Redazione

Incredibile come non si impari nulla dalla storia. Siamo nel 1933, il signor Édouard Herriot si reca in Unione Sovietica per un viaggio che lui stesso definisce «informativo»: vuole capire […]

Incredibile come non si impari nulla dalla storia. Siamo nel 1933, il signor Édouard Herriot si reca in Unione Sovietica per un viaggio che lui stesso definisce «informativo»: vuole capire cosa sta succedendo in quel paese di cui si parla in maniera tanto contraddittoria; è un inferno o un paradiso? Il signor Herriot non è una persona qualunque: più volte ministro e per tre volte presidente del consiglio della repubblica francese, membro dell’Académie Française, è un vero simbolo della Terza Repubblica e delle tradizioni umanistiche francesi e, diciamolo pure, europee, al punto di essere definito la personificazione stessa della «fede nella giustizia e nella ragione».
Questo signore, additato come esempio di «rettitudine intellettuale ed elevatezza di sentimenti», visita dunque l’Unione Sovietica, in particolare attraversa l’Ucraina, dove una carestia tremenda sta facendo vittime a milioni, e conclude che le regioni che ha percorso sono un modello di sviluppo e di prosperità, che il grano non manca e, anzi, ce n’è fin troppo, al punto che non si sa dove metterlo. Dunque, a dispetto di chi descrive l’Unione Sovietica come un inferno, secondo Herriot bisogna prenderla a modello e bisogna persino cercare di farsela amica, soprattutto in prospettiva antinazista (il viaggio è dell’agosto 1933). Sappiamo come andarono poi le cose – la storia la conosciamo, ma la conoscenza non sembra servire a nulla: nel 1935 si arrivò al patto franco-sovietico; poi ci fu Monaco nel 1938 e poi ancora, nel 1939, il patto Molotov-Ribbentrop: e l’Occidente democratico, invece di trovarsi rafforzato nei confronti di Hitler, si trovò debole fin quasi al punto di essere spazzato via.

Alla fine – anche questo sappiamo – l’Occidente si salvò, ma non certo per i fini sentimenti e l’acuta ragione di Herriot che, evidentemente, in questa vicenda si erano persi per strada; eppure se vale ancora la pena parlare di questo viaggio è esattamente per cercare di capire come era potuta sparire tanta intelligenza, come aveva potuto diventare insensibile tanta finezza d’animo.
E sia chiaro, non si tratta solo di Herriot, ma di tutti quanti sapevano e sentivano tutto – e tutta l’Europa sapeva – e però decisero che tante sofferenze e tante vite reali sacrificate non potevano modificare le conclusioni cui arrivava una logica di realismo politico che, paradossalmente, si sarebbe poi rivelata del tutto irrealistica. E sia detto per inciso, anche se non è secondario: la debolezza, persino economica e puramente utilitaristica, di questa logica non era poi così difficile da intuire se qualche diplomatico, in un rapporto non preso sul serio, faceva notare come fosse non propriamente vantaggioso concedere ai sovietici di vendere sui mercati internazionali il loro grano, che veniva sottratto ai loro stessi cittadini affamati, e che, essendo venduto sottocosto perché prodotto da schiavi sottopagati, rischiava di mettere in ginocchio le economie che funzionavano invece secondo le regole del mercato.

Tanta stupidità non è innocente, perché molti che ne erano affetti conoscevano bene tutte le sofferenze che le popolazioni dell’Unione Sovietica stavano patendo; ma in questo accecamento volontario c’è qualcosa che pare ancora più malvagio e letale per la coscienza: formulata in maniere diverse, è l’idea che «i valori umani qui e là non hanno assolutamente la stessa importanza», come disse una giornalista al seguito del signor Herriot (G. Tabouis, 16 settembre 1933).
È questa dottrina della doppia verità, della doppia morale che, unita a superficialità, propaganda, ignoranza, corruzione, ecc., uccide ogni intelligenza e perverte ogni sentimento, e va ben oltre la miseria del signor Herriot e dei suoi amici. Arriva sino ai politici di Monaco e poi sino a noi, oggi, tra populismi e sovranismi che credono che la libertà e la dignità siano divisibili e possano essere delle prerogative non necessariamente valide per tutti gli esseri umani e per tutti i tempi. Si scatena in questo modo la dialettica inarrestabile di quelli che pretendono di ridurre l’umanità alla propria interpretazione («a questi – si dice – ai nostri, si devono riconoscere tutti i diritti sanciti dalla storia dell’umanità; agli altri si deve riconoscere solo quello che noi riteniamo opportuno»); è la dialettica di quelli che riducono l’uomo a un essere per il quale tutto ciò che esiste dipende soltanto dalle sue interpretazioni; è la dialettica di quanti riducono l’uomo a un essere che consiste solo in quello che si può dare da sé, con la propria intelligenza, con le proprie analisi, con la ricchezza del proprio sentire, delle tradizioni e della forza della propria gente.

In questo modo, credono di rendere forti i loro sostenitori e i loro paesi e invece li rendono tremendamente deboli, come ai tempi di Monaco; quando non finiscono addirittura per ucciderli spiritualmente ancora prima di sedere a Monaco: perché l’umanità è indivisibile, e quando la neghi da qualche parte, in qualche essere umano, quando non riconosci qualcosa che rende l’umanità stessa eternamente irriducibile, finisci sempre per negarla in te stesso, nella gente che dicevi di voler proteggere, nei tuoi figli, che vedranno attorno a sé soltanto nemici e minacce e ne verranno travolti, vinti da una paura insopprimibile e incontrollabile.

 

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