30 Gennaio 2017

Aiutarci a ritrovare noi stessi

Redazione

Per spiegare che cosa sia l’esperienza, il metropolita Antonij di Surož racconta un curioso esperimento da lui messo in atto dopo aver incontrato uno studioso di ecologia che stava facendo […]

Per spiegare che cosa sia l’esperienza, il metropolita Antonij di Surož racconta un curioso esperimento da lui messo in atto dopo aver incontrato uno studioso di ecologia che stava facendo un sondaggio in molti paesi del mondo. Lo scienziato poneva varie domande, tra cui «Che cos’è un albero?». «Le sue domande mi intrigarono – ricorda Antonij – e io decisi di farle a mia volta alle persone che mi stavano intorno. Scelsi un giovane teologo – una persona colta, intellettuale, da cui mi aspettavo di ricevere la risposta più elevata – e una ragazza senza particolare cultura, semplicemente una brava ragazza, intelligente e di buon senso, che pensavo mi avrebbe dato una risposta lineare e univoca, senza voli pindarici. In realtà il primo – il giovane teologo colto e di elevata formazione, alla domanda “Che cos’è un albero?”, rispose: “L’albero è un materiale edilizio”. Invece la ragazza a cui feci la stessa domanda, disse: “L’albero… L’albero mi fa tenerezza. Guardi che bella la sua chioma, come oscillano rami e foglie! Ascolti il suo fruscio al soffio del vento, o sotto le gocce di pioggia…”. Era una percezione completamente diversa! Per il mio primo interlocutore l’albero non aveva alcun significato: gli serviva solo a un fine utilitario. L’unica cosa che gli interessava nell’albero era la possibilità di sfruttarlo secondo i propri interessi. Per la ragazza, invece, l’albero aveva significato in se stesso, aveva un proprio senso e valore intrinseco».
Si può stare di fronte alla stessa realtà senza neppure vederla, oppure lasciandola parlare e sentendone riecheggiare la corrispondenza al proprio cuore, ritrovando desideri e orizzonti sepolti dalle sedimentazioni della vita. Concludeva, infatti, il metropolita Antonij: «Noi ricaviamo un significato dai più svariati aspetti della vita. Ma la percezione del significato nella maggior parte dei casi dipende dalla nostra capacità di vedere, sentire, comprendere e riflettere sulla nostra esperienza».

In questi giorni è stata a Mosca Paola Bonzi, la donna che 32 anni fa, dopo l’introduzione della legge 194, ha fondato all’interno della clinica Mangiagalli di Milano il «Centro di aiuto alla vita». Dagli inizi, quando l’associazione era ospitata nella sacrestia della cappella dell’ospedale e non aveva neppure i soldi per pagarsi una linea telefonica, sono cambiate tante cose: in particolare, grazie all’aiuto e alla solidarietà del gruppo di persone creatosi intorno a Paola, sono nati circa ventimila bambini. Oggi la sua visita a Mosca viene dalla richiesta di alcuni operatori e volontari, ortodossi e cattolici, di varie regioni del paese (Russia Europea e Siberia), impegnati in diversi modi nel sociale e desiderosi di comprendere come aiutare donne e famiglie che vivono il dramma di questa scelta: ci siamo ritrovati così per due giornate di lavoro e confronto, dove tuttavia, con non poca sorpresa di vari partecipanti, a tema non è stato tanto e soltanto l’aborto.
Al contrario, proprio l’esperienza di una positività sempre possibile è stata il tema centrale di queste giornate, dove chi si aspettava delle «ricette», ovvero affidava la riuscita del lavoro a tecniche e competenze professionali nei colloqui e nell’assistenza alle donne in difficoltà, ha dovuto ricredersi guardando Paola al lavoro. I problemi non si risolvono attraverso una pura analisi, ma creando rapporti umani: in altri termini, tecniche e competenze sono semplicemente strumenti nella misura in cui ci si immedesima con l’altro, se ne assumono in toto sofferenze e paure per restituirgli, all’interno della condivisione che nasce, le risorse interiori che l’altro forse non riusciva a vedere in se stesso.
Non è questione di essere cristiani battezzati, non basta neppure essere «professionisti» della fede: Paola Bonzi è implacabile in questo – perché la vita è vita, senza aggettivi, tutto si gioca nell’esperienza personale, nel soggetto e nella sua capacità di «vedere» la vita (lei che da cinquant’anni, anche per una scelta coraggiosa di maternità, è non vedente), e abbracciarla. «Io non porto mai “motivazioni religiose”, anche se sono credente e praticante, e non salvo nessuno – ha ripetuto più volte durante il seminario di lavoro. – È la donna che deve scegliere di salvare sé e la sua creatura, io semplicemente credo nell’umanità della persona che ho davanti e la aiuto a scoprirla, perché possa vivere felice; ma questo non si può fare altrimenti che condividendo con lei fatiche e pesi della sua strada».

È proprio questo ad aver creato immediatamente un’insperata sintonia e un linguaggio comune tra persone di culture, contesti sociali ed economici diversissimi, indicando piste di lavoro e di collaborazione anche per il futuro. Ed è ciò che vale per la maternità come per ogni altro aspetto del vivere. Proprio in questi giorni, al centro culturale «Biblioteca dello spirito» di Mosca è stata inaugurata in edizione russa la mostra dedicata al metropolita Antonij esposta al Meeting di Rimini nel 2015 e successivamente in varie località della Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazachstan. L’impatto della figura del metropolita Antonij non è stato diverso, per i visitatori italiani, slavi o asiatici, come hanno documentato durante la presentazione alcuni ragazzi che ne sono stati protagonisti nelle varie fasi della preparazione e dell’esposizione. A tema, ancora una volta, l’«io» e la sua esperienza.
«Tutto è iniziato – ha esordito Miša, un ragazzo bielorusso di Gomel’ – quando alcuni anni fa mi sono sentito rispondere, alla mia richiesta di entrare in seminario: “Ma tu, in Dio ci credi?”». Una domanda che gli era sembrata ovvia, scontata, ma che scontata non era, perché in quel momento si era accorto di non avere in realtà alcuna esperienza di quel Dio a cui voleva dedicare la vita. E da lì tutto si è rimesso in moto. Non basta un semplice «interesse culturale» per una figura di grande rilievo umano e religioso – ha sottolineato Roman di Mosca: «Per me si è trattato di un incontro che spalanca alla vita», da cui è nata ben presto tutta una catena di amicizie e scoperte che ha coinvolto un numero sempre maggiore di persone. Anche lavorare insieme per preparare la mostra è stato un incontro – ha raccontato Andrej Strocev, di Minsk: «Abbiamo lavorato usando il metodo indicato dal metropolita Antonij: leggendo i suoi testi abbiamo prestato attenzione a ciò che, come diceva lui, “ci colpiva al cuore”, cercando di andare al fondo di quelle parole». Forse proprio per questa sua dinamica la mostra «ha cominciato a viaggiare da sola» di città in città – come ha osservato Oleg – perché c’è sempre qualcuno tra i suoi visitatori che si entusiasma a ciò che ha visto e all’idea di poterlo mostrare a sua volta in un altro luogo, ai suoi conoscenti, nella sua parrocchia, nella sua comunità. E non è raro il caso in cui gli stessi visitatori, oppure il custode pagato per la sorveglianza si trasformano in improvvisate ma motivate e vivacissime guide…

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