30 Gennaio 2017

Viaggio a occhi chiusi. Lettere su Rembrandt

Ol'ga Sedakova

La realtà come si presenta, all’intersezione tra visibile e invisibile, dove l’invisibile detta al visibile la sua identità più profonda e gli impedisce di ridursi a stereotipo, a «protesi artificiale». Un’esclusiva anticipazione.

In queste lettere idealmente indirizzate a Vladimir Bibichin, un grande amico e grande filosofo scomparso alcuni anni fa, la poetessa si interroga, rivisitando il mondo artistico di Rembrandt, sulla possibilità di «vedere» realmente, sull’«iconicità» del reale, ovvero sulla sua possibilità di schiudere il mistero che si affaccia dentro e dietro il segno, sulla «dimensione biblica» di ogni evento della storia personale e universale.
La ringraziamo per avere offerto al pubblico italiano un’anticipazione del volume
Viaggio a occhi chiusi. Lettere su Rembrandt (Ivan Limbach, San Pietroburgo 2016 ), presentato in lingua russa a Mosca alla mostra Non fiction il dicembre scorso.

Dalla Lettera prima

…L’uomo è ciò che vede. Sulle lapidi sepolcrali arcaiche dei Balcani l’intera persona umana veniva rappresentata attraverso gli occhi. Certo, esiste anche un altro uomo, il cui «carattere consiste nella somma dei suoi gesti». Ma quest’uomo non mi interessa tanto né in sé, né negli altri…
L’idea della cecità è intimamente legata a tutto ciò che Rembrandt fa. Sono molti i soggetti dedicati ad essa? Innumerevoli. Sembra che questo sia per lui un tema ossessionante. I ciechi dell’Antico Testamento, il loro accecamento e risanamento (l’accecamento di Sansone, Giacobbe accecato dalle lacrime è rappresentato più di una volta; Tobia divenuto improvvisamente cieco e poi guarito – molte volte), il cieco Omero raffigurato sulla tela e su acquaforte, e ciechi vegliardi senza nome (…).

Rembrandt van Rijn, “Il senso della vista. Venditore di occhiali”, ca. 1624-1625, Museum De Lakenhal, Leiden.

Uno dei primi quadri di Rembrandt, «Il senso della vista. Venditore di occhiali» (1625), mostra due vecchi non vedenti e le lenti della loro salvezza in mano al venditore. Ottica e oftalmologia gli erano ben note. Mi è capitato tra le mani un libro, scritto da un medico, che faceva notare l’esattezza con cui Rembrandt rende l’arte dell’oftalmologia a lui contemporanea, l’operazione per l’asportazione della cataratta. Ma la questione non è nei soggetti, bensì nel tema della cecità e della capacità di vedere, del visibile e dell’invisibile di cui è imbevuto tutto il tessuto della pittura di Rembrandt: nei suoi volti, in cui lo sguardo esterno è spento, non vedente, nelle sue incredibili mani, che conoscono il mondo al tatto, come gli occhi non saranno mai in grado di fare (le mani del Padre sulla schiena del Figlio, le mani di Simeone nella «Presentazione al tempio», la mano dello sposo sul seno della sposa nella «Sposa ebrea»). Del resto, anche le mani, come gli occhi, possono significare la persona nella sua interezza: pensiamo alle mani sulle lapidi sepolcrali arcaiche o alle grandi mani, sproporzionate, delle Oranti nelle catacombe. È il problema del visibile e della cecità nell’oscurità che in Rembrandt sembra avviluppare il colore. In questo suo rosso, più tattile che visibile (segno del calore in base al quale si distinguono le cose al tatto), nella pastosità dello strato pittorico, che involontariamente saggiamo anche con gli occhi (la manica dello sposo nella «Sposa ebrea»). Il rosso di Rembrandt dà da pensare agli oculisti: non potrebbe essere il sintomo di una vista vacillante? Dante diceva che a causa dello sforzo cui sottoponeva la vista leggendo di notte, gli occhi gli facevano così male che in tutto ciò che vedeva si mescolava del rosso.
Ma c’è di più… I personaggi di Rembrandt sono protesi, con tutto il corpo, a scrutare qualcosa. Finché una persona ha gli occhi che ci vedono bene, tutto il resto può sentirsi esentato dallo sforzo di vedere, non ce n’è bisogno. Ma in Rembrandt non solo le persone, ma anche gli alberi, le cose, sembrano impegnati in questo… La cecità, ovvero il problema di ciò che si vede e di chi vede.

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Ol'ga Sedakova

Poetessa, scrittrice e traduttrice moscovita, è docente alla Facoltà di Filosofia dell’Università Statale Lomonosov. Erede della tradizione della grande cultura russa, la sua opera è tradotta in numerose lingue e ha ottenuto riconoscimenti, quali il premio Solov’ëv e il premio Solženicyn.

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