8 Dicembre 2021

Ivan Šmelëv, «Il sole dei morti»

Giovanni Codevilla

Recensione del volume di Ivan Šmelëv, “Il sole dei morti – Epopea”, a cura di Sergio Rapetti, Bompiani, Milano 2021.

L’autore, nato nel 1873 in una famiglia di veteroritualisti, dai quali ha appreso la vitale vivacità e la ricchezza del linguaggio popolare, esordisce in giovane età con i primi scritti, nei quali è presente il tema della spiritualità, a partire da Sulle rive rocciose di Valaam scritto nel 1897 dopo una visita al monastero del lago Ladoga del 1895.
Il riconoscimento del suo notevole talento letterario avverrà di lì a qualche anno dopo l’uscita di altre opere, tra le quali L’uomo del ristorante: Maksim Gor’kij, in una lettera del 1910 gli esprime tutta la sua affettuosa stima scrivendogli: «Nei Vostri racconti… si avverte una sana inquietudine, capace di emozionare positivamente il lettore e la Vostra lingua è ricca di “parole proprie”, semplici e belle, mentre dappertutto risuona la nostra preziosa, russa, giovanile insoddisfazione per la vita com’è. Tutto questo vi ha conferito un posto particolare nel mio cuore – il cuore di un lettore innamorato della letteratura – tra decine di prosatori d’oggi, gente senza volto».

Questo giudizio oltremodo positivo, condiviso da Korolenko, nonché da Ivan Bunin, al quale Šmelëv resterà legato da una solida amicizia, verrà poi ribadito in tempi a noi più vicini da Solženicyn e da preclari autori occidentali, come, ad esempio,  il premio nobel Thomas Mann.

Šmelëv saluta con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma avversa da quasi subito l’Ottobre, del quale intuisce immediatamente le propensioni totalizzanti e sanguinarie. Per sfuggire alla guerra civile si trasferisce, come molti altri intellettuali, in Crimea, con moglie e figlio, nell’amena località di villeggiatura di Alušta, dove assiste agli eccidi e ai saccheggi perpetrati dai bolscevichi sulla popolazione civile anche dopo la fine della guerra civile (1921). L’amatissimo figlio Sergej, rientrato malato di tisi dalla prima guerra mondiale e cooptato dalle forze antibolsceviche in Crimea, dopo la sconfitta e ritirata di queste, aveva creduto a una falsa «amnistia» dei bolscevichi finendo proditoriamente assassinato. La stessa sorte colpisce decine di migliaia di persone rifugiatesi nella ridente riviera del Mar Nero. A questo punto Šmelëv, che si era inutilmente adoperato per salvare il figlio, accetta l’invito di Bunin dalla Francia ed emigra con la moglie a Berlino, per trasferirsi successivamente a Parigi.

Non corrisponde al vero quanto affermato da alcuni, secondo cui Šmelëv sarebbe stato imbarcato sulla Oberburgmeister Haken, conosciuta come la Nave dei filosofi, diretta da Pietrogrado a Stettino con a bordo gli esponenti più significativi dell’intelligencija russa tra i quali N.A. Berdjaev, V.V. Stratonov, S.L. Frank, I.A. Il’in, M.A. Il’in (Osorgin), S.E. Trubeckoj, B.P. Vyšeslavcev, A.A. Kizevetter, N.P. Romodanovskij, M.M. Novikov e altri noti intellettuali di Mosca e Kazan’, tutti privati per indegnità della cittadinanza della Repubblica dei Soviet in forza del decreto del Comitato esecutivo centrale del 10 agosto 1922 Della deportazione amministrativa (Ob administrativnoj vysylke, in «SU RSFSR», 1922, № 51, art. 646).

A Parigi, a lungo ospite di Bunin, e in altre località della Francia, scriverà per oltre 25 anni, spesso in condizioni di ristrettezze anche estreme, alcuni libri importanti, subito amati negli ambienti dell’emigrazione russa, e oggi, ormai da trent’anni, pienamente rivalutati nella Russia postsovietica, dove viene annoverato tra i massimi esponenti della letteratura, erede di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ e di Nikolaj Semënovič Leskov per la maestria nel rendere il linguaggio parlato.

La sua produzione letteraria è assai vasta: nel 1923 scrive Il sole dei morti, tradotto in diverse lingue ed anche in italiano nel 1937, ma la pubblicazione viene bloccata dall’editore forse per ragioni di opportunità politica. A questo capolavoro, per il quale viene candidato per l’assegnazione del premio Nobel, fanno seguito negli anni successivi opere cariche di spiritualità e di pari valore, tra le quali vanno ricordate Pellegrinaggio e L’anno del Signore e che, come si è detto, lo hanno reso amato e popolare e sarebbe augurabile vedere presto tradotte in italiano.

Al tema della decadenza spirituale – affrontato già nel romanzo L’uomo del ristorante del 1911, che lo ha reso famoso, e in racconti e romanzi brevi di quello stesso periodo – si affianca nelle opere successive quello della patria sofferente, ripreso nel presente lavoro: «Novelli creatori della vita, da dove siete venuti? Avete sperperato con assoluta noncuranza tutto ciò che aveva raccolto il popolo russo. Avete profanato le tombe dei santi e disturbato nel suo sonno eterno le spoglie del beato Alessandro Nevskij, eroe della Rus’, la patria primeva che vi è completamente estranea. Di questa Rus’ hanno cancellato la stessa memoria, i nomi e i volti… Il mutato nome l’han lanciato nel mondo, richiamo oramai dimentico della propria identità…Ah Russia! Con quali malie t’hanno sedotta? Quale vino ha potuto inebriarti tanto?».

I 35 capitoli  de Il sole dei morti, ora finalmente accessibile al lettore italiano nella impeccabile e raffinata traduzione di Sergio Rapetti, studioso che ha contribuito in modo determinante alla conoscenza della letteratura russa in Italia, conducono il lettore nella Crimea, terra di rara bellezza, resa irriconoscibile dalle efferatezze del terrore rosso, dove dominano la fame e la violenza: intellettuali, operai, contadini e borghesi, russi e tatari sono accomunati dal terrore e dalla fame. La violenza trionfa: un soldato viene ucciso perché, non avendo nulla con cui coprirsi, indossa un cappotto militare zarista, le donne che si oppongono allo stupro vengono uccise, dappertutto trionfa la fame che induce una nobildonna a vendere una sua preziosa collana, per assicurarsi gli alimenti per sopravvivere pochi giorni.

I. Šmelev (1873-1950).

I. Šmelev (1873-1950).

È vivo il ricordo dei tempi passati: «Ricordo le vacche dal mantello bruno e il muso bianco, la Krasul’ka e la Polja, che strizzando gli occhi languidi per il sole ruminavano pigramente finché le energiche mani facevano risuonare i secchi. Ricordo l’esperto sfaccendare, gli scintillanti bidoni, il loro frastuono e sciabordio verso il tramonto, quando una carretta scendeva col suo carico. E ricordo i bei bambini, un piccolo di tre anni, bruciato dal sole sino a diventare nero, che tenendo in pugno un grosso pezzo di pane fior di farina, lo salvava a gambe levate e urlando dall’assedio delle galline e una bimba rotondetta anche lei e, come il fratellino, a gambe e piedi nudi che giocava con i vitelli.
Sento ancora l’odore pungente di sudore e letame degli animali accuditi. E l’abbondanza da esso evocata, il mare di latte di allora…sotto un sole generoso!… Il mare si è prosciugato. Le vacche sono state mandate nella stalla nazionale e il mare di latte è rimasto un ricordo. Le vacche stesse sono volate via col vento, la fattoria si è arenata, sprofondando nel silenzio e nel sangue. I vicini continuano tuttora a spartirsene le spoglie».

Tutto muore sotto i raggi di un sole dorato che non è più simbolo di vita, il sole dei morti, perché illumina una terra nella quale tutto è stato calpestato e in cui dominano solo fame e morte che colpiscono, insieme alle comunità e famiglie di uomini, donne e bambini, il regno animale e quello vegetale. Ricorda Rapetti che tra la fine del 1920 e la metà del 1921 nelle città della Crimea le vittime degli organi di repressione, portatori dell’estrema barbarie, quasi «agenti» della strega Baba-Jaga, la divoratrice dei bambini del folklore russo (pp. 67-72), sono state tra le 60 e le 120-150 mila, senza contare i morti per fame.

Vero è che la conoscenza di quanto accaduto in Russia negli anni della guerra civile e in quelli successivi rimane ancor oggi in Italia e altrove quanto mai lacunosa e che il capolavoro di Ivan Šmelëv contribuisce a colmare un vuoto.

Alla fine del volume il lettore trova un’ampia e dotta postfazione del curatore, il quale illustra la vita e le opere di Šmelëv e sapientemente colloca questo suo capolavoro nel ricco ambito della storia delle letteratura russa.
A significare l’alta considerazione che il mondo culturale russo attribuisce all’opera di Šmelëv merita ricordare che le sue spoglie mortali, assieme a quelle della moglie, nell’anno 2000 sono state trasferite dal cimitero russo di Parigi Sainte-Geneviève-des-Bois a quello del Monastero Donskoj di Mosca.

Giovanni Codevilla

Già professore di Diritto Ecclesiastico comparato e incaricato di Diritto dei Paesi dell’Europa Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Le sue sfere di interesse: diritto russo, dell’URSS e della Federazione Russa, storia delle relazioni tra Stato e Chiesa in Russia, legislazione sulla libertà religiosa, storia della Chiesa ortodossa russa. Autore di lavori fondamentali come Stato e Chiesa nella Federazione Russa; Lo zar e il patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri (La Casa Matriona), la tetralogia Storia della Russia e dei paesi limitrofi. Chiesa e impero (Jaca Book, 2016), Il terrore rosso sulla Russia ortodossa (Jaca Book,  2019).

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