9 Giugno 2021

Da Mosca a Stresa: l’eclisse della responsabilità

Maurizio Redaelli

Siamo tutti malati di irresponsabilità. E questo fa male alla politica come alla vita quotidiana.

Oggi in Russia, come appare chiaro sia a un osservatore esterno sia a chi ci vive, si contrappongono il partito che demonizza Putin e quello del fatalismo, che attribuisce tutto ciò che accade nel paese alla pura «logica» della politica in quanto tale e ha perciò perso la speranza di un cambiamento.

In questa situazione di sterile contrapposizione emerge però una posizione nuova, che sposta i termini del problema su un piano ben diverso: alcuni parlano infatti del «Putin collettivo», riconoscendo le mille piccole irresponsabilità personali e le connivenze miopi e acritiche, che hanno contribuito a portare la Russia alla situazione attuale.

Si riconosce così un malessere oscuro, che mina alla radice la capacità di una scelta responsabile e di un reale giudizio critico: la superficiale indifferenza di un individualismo, che rifiuta il nesso fra libera scelta e responsabilità, che è chiuso in se stesso e vive all’insegna del «perché e in nome di che cosa dovrei occuparmene proprio io?».
Per farsi un’idea di quanto pesi questa indifferenza basta pensare alla scarsa adesione alla campagna vaccinale, che non ha molte altre spiegazioni convincenti.

Questa crisi del ruolo dell’io e del valore della responsabilità personale non ci è certo estranea ed anzi, mutatis mutandis, ci tocca da vicino, in una vicenda apparentemente molto lontana, non solo geograficamente.

La tragedia del Mottarone ha infatti messo in luce ancora una volta un meccanismo, consolidato nei media come nel comune sentire: trovare il «mostro da sbattere in prima pagina», anche e soprattutto per tranquillizzare la coscienza di noi tutti, «gli altri». Giornali e telegiornali hanno quasi tutti individuato nella «avidità» la causa del disastro, magari con una sorta di «attenuante generica» dovuta alla crisi economica e alla situazione disperata del settore turistico.

Ma è davvero questa la causa scatenante unica, o almeno la più importante, di quanto è accaduto? Temo che il principale responsabile sia tragicamente in buonafede, quando afferma che, se avesse pensato che poteva accadere una cosa simile, non avrebbe mai fatto quella scelta. È evidente una inquietante superficialità, che non si giustifica con un banale calcolo cinico… c’è dietro qualcos’altro.

Appare quanto meno probabile che, al fondo, la vera causa – al di là della logica del profitto ad ogni costo, comunque presente – sia da ricercare in quella che resta una delle «cifre» della nostra epoca: la scissione sistematica, e ormai entrata comunemente nell’ambito dell’«ovvio», tra libertà di scelta e responsabilità.

È sufficiente ricordare la costante confusione fra desideri e diritti, o la rivendicazione di un’assoluta libertà d’espressione, che rifiuta la responsabilità delle conseguenze di ciò che si dice, si scrive e si fa.

Sta diventando sempre più un’ovvietà l’idea, più o meno portata allo scoperto, che ogni tipo di regola, in quanto limite alla libertà, sia un abuso, che è magari necessario in circostanze eccezionali, ma che resta un abuso e un «vulnus» alla dignità dell’individuo.

Ci si chiederà che cosa ha a che fare questa riflessione con la tragedia del Mottarone: domanda legittima. La connessione sta nel fatto che la superficialità criminale della scelta tecnica, reiterata per giunta, sembra fondarsi su una consolidata incapacità ad andare oltre il proprio problema immediato, il «qui e ora», e sul rifiutarsi anche solo di pensare alle conseguenze: ora mi conviene fare questo e poi… è impossibile che la traente si spezzi, tutte queste regole sono eccessive, che cosa vuoi che succeda!

Si potrebbero fare molte considerazioni sulla tendenza a «cancellare» il rischio dal nostro pensare: la pandemia non ci ha insegnato nulla in questo senso! Ma non è questo che ci interessa approfondire qui.
Crediamo infatti che sia interessante vedere come la superficialità sia strettamente connessa con l’individualismo e l’opportunismo. Se mi concentro sulle mie opinioni, sui miei interessi e i miei punti di vista, se la realtà dei crudi fatti diventa una sorta di gabbia che «tarpa le ali» alla mia libertà di giudizio, se tutto, in ultima analisi, deve essere funzionale ai miei desideri e a ciò che penso «qui e ora», tutto diventa tanto relativo quanto superficiale. Il relativismo diventa in fondo il «valore» su cui fondo il mio vivere e il «metodo» del mio pensare, giudicare e decidere quotidiano.

da mosca a stresa: l’eclisse della responsabilità

(V. Tenevoy, unsplash.com)

Nel suo Ciò che abbiamo in comune – 44 lettere dal mondo liquido, Zigmunt Bauman scriveva: «Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti umani, tende a essere considerata male, come una minaccia: dopotutto, qualsiasi giuramento di fedeltà e ogni impegno a lungo termine (per non parlare di quelli a tempo indeterminato) sembrano annunciare un futuro gravato da obblighi che limitano la libertà di movimento e riducono la capacità di accettare le opportunità nuove e ancora sconosciute che (inevitabilmente) si presenteranno. La prospettiva di trovarsi invischiati per l’intera durata della vita in qualcosa o in un rapporto non rinegoziabile ci appare decisamente ripugnante e spaventosa».

Questo testo è molto interessante, perché allarga la visuale dalla deformazione del giudizio alla deformazione dei rapporti e delle relazioni con le persone. Non c’è solo la realtà che mi vincola – e minaccia la mia pretesa di una «libertà assoluta», sciolta dal legame con la responsabilità – ma ci sono anche e soprattutto gli altri, la prova vivente e ineliminabile che il mio considerarmi centro del mondo è solo una patetica pretesa infantile.

Gli altri sono un fastidio, tanto più grave quanto più sono «altri», diversi da me, in termini etnici, culturali, politici o che altro. Profeticamente, già nel 1943 nel suo L’essere e il nulla, Jean Paul Sartre scriveva che «l’inferno sono gli altri».

Il nocciolo della questione è dunque il cortocircuito fra realtà e (ir)responsabilità – fatto di rifiuto della realtà dei fatti e delle relazioni e di illusione, sempre sconfessata dalla vita reale e quindi sempre traumatizzante, di autonomia «libera» – sia che si tratti di ignorare le regole di sicurezza su una funivia, sia che si tratti di pensare che i problemi politici in Russia siano «cosa altrui», nel senso che si lascia decidere al «capo» o che si considera quest’ultimo una sorta di «evento naturale», di cui non si ha né il potere né l’interesse di occuparsi.

Se non esco da questo circolo vizioso, non è per nulla «mostruoso» che io viva e decida con un autocostruito paraocchi, che mi impedisce anche solo di immaginare che accada una tragedia per causa mia o che le mie piccole irresponsabilità possano recare danno all’intera società.

Ci sono – grazie a Dio – tante persone che, nel concreto della vita di ogni giorno, si prendono le loro responsabilità ed escono da questo circolo vizioso, ma nessuno di noi può «chiamarsi fuori» da questo problema: il rischio lo corriamo, poco o tanto, tutti.

L’individualismo postmoderno è l’acqua in cui nuotiamo, l’aria che respiriamo e la sua pericolosità non sta tanto nei contenuti – palesemente inconsistenti, a ben guardare – ma nel suo apparire «neutro», non impegnativo e utile alla libertà personale.

Se torniamo col pensiero a Mosca e alla Russia, vediamo che, pur in una cultura e in una situazione molto diverse, il problema, nella sua sostanza è il medesimo: la superficialità, l’indifferenza, l’irresponsabilità, non quella di chi non si rende conto di quello che fa, ma di chi rifiuta di essere responsabile delle sue scelte.

Se ci lasciamo convincere che sul Mottarone c’era solo un «mostro» o che Putin è una sorta di «evento naturale» e che noi possiamo continuare a vivere tranquillamente come prima, senza farci domande, allora abbiamo perso la nostra battaglia di libertà, magari restando paradossalmente convinti di averla vinta.

 

Maurizio Redaelli

Laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore nel 1974 con una tesi di Antropologia Culturale sulle religioni primitive, si è occupato per oltre trent’anni di comunicazione, sia presso Agenzie italiane e internazionali, sia come libero professionista. Dal 1977 partecipa alla vita della Fondazione Russia Cristiana.

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