14 Giugno 2019

La rinascita della Chiesa non è più un progetto politico

Redazione

Si sono spenti gli echi del conflitto scoppiato a Ekaterinburg intorno alla costruzione di una nuova chiesa in una zona di verde pubblico, ma rimane aperta la domanda: che simbolo rappresenta oggi in Russia per la gente la Chiesa?

Si sono spenti gli echi del conflitto scoppiato a Ekaterinburg intorno alla costruzione di una nuova chiesa in una zona di verde pubblico, ma rimane aperta la domanda: che simbolo rappresenta oggi in Russia per la gente la chiesa (con la minuscola ma anche con la maiuscola)?

Negli anni del potere sovietico, a fronte di un’ideologia massificante e spersonalizzante la Chiesa, forte unicamente dei suoi martiri e confessori, era guardata sia come un raro luogo di libertà per la persona, sia come un modello per edificare una società a misura d’uomo. Non è un caso che, alla fine anni ’80-inizio ’90, parallelamente al crollo definitivo del sistema e all’inizio della perestrojka nel paese si assistesse al fenomeno di battesimi di massa e di un imponente movimento di ricostruzione delle strutture religiose. La scena finale del film Pentimento di Abuladze (1987) mostra una via che conduce in lontananza a una chiesa, assurta a simbolo della fede cristiana, di una cultura secolare, della creatività e libertà umane.

Quasi trent’anni dopo, nel 2014, in Russia è apparsa un’altra immagine-simbolo, tratta dal film Leviathan di Andrej Zvjagincev: qui la macchina del potere si allea con una gerarchia ecclesiastica cinica e corrotta nel calpestare e travolgere l’individuo, e sulla casa che invano questi cerca di difendere, sul sangue versato in questa lotta spietata sorge appunto una chiesa. Alla Chiesa perseguitata e martire dei decenni del regime sovietico sembra essersi sostituita l’immagine di un’istituzione formale, oppressiva, fiancheggiatrice del potere.

Come si spiega questo cambiamento, che cos’è avvenuto nel frattempo? Nella rinascita ecclesiale degli ultimi trent’anni si è smarrita la coscienza che animava la Chiesa-martire, oppure sono esplosi problemi irrisolti e latenti anche negli anni delle persecuzioni? Alcune risposte sono emerse da un incontro pubblico recentemente svoltosi alla «Biblioteca dello Spirito» di Mosca sulla chiusura e distruzione degli edifici di culto negli anni ’20-30, a cura della Fondazione Memorial (in epoca sovietica decine di migliaia di chiese vennero chiuse, demolite oppure trasformate in cinema, sale da ballo, musei, crematori, fabbriche, piscine, ecc. – nella sola Mosca tra il 1917 e il 1937 si passò da circa 850 a 46 edifici aperti al culto; negli archivi si sono conservate montagne di lettere di protesta e di suppliche scritte dalle comunità parrocchiali nel tentativo di difendere la propria chiesa). Con un sorprendente commento della relatrice, Anna Margolis:

In epoca sovietica le chiese venivano demolite per far spazio ai parchi – oggi nei parchi si vogliono costruire chiese, ma in fondo la logica non cambia, è sempre un potere dall’alto che pretende di dettar legge alla società civile.

A documentare questa tesi la relatrice ha fatto notare la lacuna riguardante il periodo sovietico che si osserva visitando i siti web delle chiese o gli stessi edifici di culto oggi riaperti: non si fa pressoché parola delle traversie subite dall’edificio e dalla sua comunità, e anche il restauro è condotto in modo da cancellare ogni ferita, non esiste alcun lavoro per serbare la memoria, come se si trattasse di un’esperienza da dimenticare, che non offre alcun apporto positivo. Inoltre, ha osservato la relatrice, non si può dimenticare che il processo di alienazione di un edificio di culto partiva solitamente dall’interno della società, dall’iniziativa di un ente – fabbrica, museo, associazione – che lo reclamava per sé, per adibirlo a sede della propria attività, e che gli esposti delle stesse comunità parrocchiali contengono talvolta argomentazioni e proposte sconcertanti: ad esempio, quella di far chiudere invece del proprio questo o quell’altro edificio di culto, appartenente a una comunità numericamente inferiore o «reazionaria», o magari a un’altra confessione o religione. Si delinea un quadro tutt’altro che univoco, che mette in luce anche nei primi decenni post-rivoluzionari sia una posizione ostile o indifferente della società civile nei confronti della Chiesa, sia la tentazione di quest’ultima di continuare a difendere la propria libertà in termini corporativistici, secondo la logica di potere che aveva contraddistinto nel periodo sinodale l’esistenza della struttura ecclesiastica.

«Chi dobbiamo pregare perché ci ascoltiate?» – Ekaterinburg.

Se in quest’ultimo trentennio la gerarchia ecclesiastica, in fondo, ha pensato di poter riproporre lo status quo prerivoluzionario, chiedendo una libertà religiosa garantita dallo Stato in cambio della propria lealtà incondizionata in ambito pubblico, la posizione dello Stato e della società è radicalmente cambiata. Lo Stato accetta e sfrutta i servigi della Chiesa, facendole in cambio qualche piccolo favore, dandole la «scorta armata» che chiede, come nel caso di Ekaterinburg, ma – è inutile nasconderselo – è profondamente laico e indifferente nei confronti del fenomeno religioso in quanto tale; quanto alla società, sta emergendo anche qui il conflitto tra «fondamentalismi» religiosi e il «totalitarismo morbido» di una «cultura civile che definisce il proprio umanesimo attraverso la rimozione della componente religiosa dell’umano», come ha descritto il conflitto in atto nella società contemporanea un recente, illuminante testo della Commissione teologica internazionale, La libertà religiosa per il bene di tutti.

Anche in Russia tra gli intellettuali è sempre più diffuso il modello liberale, che confina il fatto religioso nella sfera del privato, ne fa un diritto della persona ma non gli riconosce un contributo positivo da offrire in ambito pubblico. La stessa Margolis, pur producendo un quadro molto puntuale del fenomeno relativo agli edifici di culto, ha sorvolato, minimizzandolo, sul problema del principio antireligioso come determinante la politica sovietica sin dagli inizi, e attribuendo invece un valore positivo ai decreti del 1918 sulla «Separazione della Chiesa dallo Stato e della scuola dalla Chiesa», perché avrebbero «finalmente tolto alla Chiesa ortodossa il suo status di struttura di potere».

Il quadro, tuttavia, in questi termini sarebbe incompleto. All’interno della Chiesa esiste un potenziale che non si identifica con nessuna di queste forze in gioco: negli ultimi trent’anni sono nate generazioni che hanno vissuto un’esperienza di fede diversa, hanno incontrato in patria e all’estero dei padri e dei maestri, e oggi si pongono come interlocutori dell’istituzione, formulano domande scomode, assumono posizioni controcorrente, si interrogano sul significato di parole come «libertà», «responsabilità», «missione», «unità dei cristiani», insomma rivendicano alla comunità cristiana il posto che realmente può e deve occupare nella società:

Il cristianesimo si dispone a sostenere la speranza di una comune destinazione all’approdo escatologico di un mondo trasfigurato, secondo la promessa di Dio… La fede cristiana è consapevole del fatto che questa trasfigurazione è un dono dell’amore di Dio per la creatura umana e non il risultato dei propri sforzi di migliorare la qualità della vita personale o sociale. La religione esiste per tenere desta questa trascendenza del riscatto della giustizia della vita e del compimento della sua storia.
(La libertà religiosa per il bene di tutti, n. 87).

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