5 Febbraio 2018

Daremmo la vita per un «uomo inutile»?

Artemii Safyan

Il 25 gennaio un uomo di 35 anni è morto investito da un treno alla periferia di Mosca. Un fatto di cronaca come tanti e che meriterebbe solo la nostra […]

Il 25 gennaio un uomo di 35 anni è morto investito da un treno alla periferia di Mosca. Un fatto di cronaca come tanti e che meriterebbe solo la nostra compassione se le circostanze di questa morte non fossero così imponenti oltre che tragiche.
Verso le 21 di quel giorno Georgij Velikanov, un laico molto attivo nella comunità della parrocchia del Salvatore Misericordioso alla periferia di Mosca, che sta anche preparandosi al diaconato, arrivando in stazione vede sulle rotaie un vagabondo visibilmente ubriaco, che barcolla pericolosamente senza rendersi conto di dove si trova. Tra qualche minuto è annunciato un treno ad alta velocità. La reazione di Georgij è immediata: scende anche lui sui binari e cerca di persuadere l’altro a risalire sul marciapiede. Inutilmente: l’uomo fa resistenza – più tardi, quando si presenterà volontariamente alla polizia, dirà che non era in sé e non capiva dove fosse e che cosa stesse succedendo. Il treno sopraggiunge. Georgij agita le braccia per segnalare al macchinista la loro presenza, nel disperato tentativo di fermare il treno. Ma è troppo tardi: anche azionando il freno di emergenza, questi non riesce ad arrestare il convoglio. Davanti all’ineluttabile Georgij spinge il barbone sotto la piattaforma, dove c’è una rientranza, e gli fa scudo con il proprio corpo. L’uomo dirà poi agli inquirenti che a riportarlo alla realtà è stato il colpo del corpo di Georgij scagliatogli addosso dal treno. Resta illeso, ma per Georgij è la morte sul colpo. Non ci ha pensato due volte a dare la sua vita per salvare quella di un disperato, di un uomo che tanti definirebbero solo un peso per la società.

Di questa storia si è subito parlato sui mass media e nei social, e c’è da augurarsi che se ne parli ancora a lungo, che la si citi in predica e la si additi come esempio. Il tempo ci aiuterà a capire la profondità di questo gesto, ma possiamo già tentare di evidenziarne alcuni aspetti.
In una lettera a un amico, nel 2011 Georgij scriveva: «Quando mi ha creato, prima ancora che io fossi generato nel seno di mia madre, Dio deve aver chiesto alla mia anima: “Sei disposta a fare questa strada? Vuoi questo cammino?” – e io ho risposto di sì. I teologi diranno che è un’eresia, ma la nostra anima sa il cammino che la attende. Il nostro compito è proprio riconoscerlo e accettarlo come un dono dalle mani di Dio. Allora non è solo una croce, ma diventa anche una gioia. È croce perché sulla strada della vocazione bisogna lottare con il mondo, la carne e il diavolo. Ma è gioia perché su questa strada – e su nessun’altra – si trova la comunione con Dio». Alla luce di queste parole, l’estremo gesto di Georgij non è stato prima di tutto un atto eroico individuale, ma il frutto di una coscienza acquisita nella compagnia della Chiesa, e che in quel momento gli ha dettato un agire che non era solo il suo.

Chi è il mio prossimo?

Il gesto di Georgij ha colpito molti in Russia, perfino il patriarca Kirill ha voluto scrivere alla moglie e ai genitori: «Senza stare a pensarci, Georgij si è buttato a salvare un perfetto sconosciuto caduto sui binari, ha dato la propria vita per salvare il prossimo. Dio gli renda merito per questo gesto, poiché egli ha adempiuto così il comandamento di Cristo “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,12-13)». Parrebbe una contraddizione, perché Georgij ha applicato questo precetto non a un «amico», ma a un «perfetto sconosciuto». A meno che per lui quel poveraccio rappresentasse invece l’amico più caro. In un’altra lettera scriveva: «Sono un uomo strano, senza utilità per il mondo, ma quando vado a trovare persone inutili e superflue come me ne ricavo pace».

Georgij era stato educato alla fede sin da bambino, nella parrocchia dei Santi Cosma e Damiano, che raccoglie l’eredità di padre Aleksandr Men’. I suoi genitori avrebbero voluto per lui una brillante formazione, e decisero di mandarlo a studiare alla Sorbona; ma non era ciò che Georgij voleva, tanto che finì per scappare di casa e nascondersi per un paio di settimane da amici, per distogliere la famiglia da questo progetto. La sua scelta personale era un’altra, il servizio ai poveri; e così, dopo essersi iscritto all’università ortodossa San Tichon cominciò a lavorare al Dipartimento del patriarcato per le opere di carità, con diversi incarichi: volontario in un reparto di malati psichici, responsabile della raccolta di aiuti umanitari per le persone senza fissa dimora, addetto stampa e così via.

Dopo la seconda guerra mondiale padre Werenfried van Straaten, futuro fondatore dell’associazione «Aiuto alla Chiesa che soffre», cominciò a raccogliere tra gli olandesi soldi e cibo per sostenere delle famiglie tedesche: eppure erano i nemici di ieri, avevano insanguinato l’Europa. Il gesto di padre Werenfried era inaccettabile per molti, che non riuscivano a considerare i tedeschi come degli esseri umani. Così sono per noi le persone senza fissa dimora, i barboni: li guardiamo come gente che per propria colpa ha perso ogni sembianza umana, leggiamo distrattamente i fatti di cronaca che parlano di aggressioni o uccisioni perpetrate nei loro confronti. Al massimo possiamo compiere qualche opera di carità per loro, più che altro, in fondo, per metterci in pace la coscienza, ma sicuramente non ci verrebbe mai in mente di metterci al loro livello, che so, di bere un tè con loro! Invece, uomini come padre Werenfried e Georgij ci testimoniano che ogni persona – indipendentemente dal suo posto nella scala sociale – è degna di considerazione, anzi, la sua vita ha un prezzo inestimabile.

Esistono in ciascuno radicati pregiudizi, muri che consolidiamo quotidianamente, sia nella società russa che all’interno della Chiesa. In tal modo, separiamo lo spazio della vita da quello della fede. Ma davanti a un uomo che con la sua vita ridà carne alle parole del Vangelo questo dualismo cede, barriere che sembravano solidissime cominciano a vacillare e Cristo ritorna ad essere il centro della vita reale: del resto, questo è il metodo della Chiesa, che ci dona in ogni epoca dei santi rispondenti ai «segni dei tempi»; è il metodo di Dio, che non è venuto al mondo per trasmetterci una filosofia, ma per dare la propria vita. L’ha ricordato il vescovo Panteleimon, che come presidente del Dipartimento del patriarcato per le opere di carità conosceva da vicino Georgij: «Gesti come quello di Georgij possono cambiare le relazioni tra le persone. Lui ha agito secondo il Vangelo: ha soccorso il suo prossimo. E non importa di che nazionalità sia, o che situazione economica abbia, non importano il suo aspetto o la sua età. Il nostro prossimo è chiunque ci sia accanto».

Le porte dell’eternità

Così guardato, anzi restituito alla vita, il «barbone» ha cessato di essere tale. Come ha raccontato padre Grigorij Geronimus, il giovane parroco di Georgij, l’uomo si è presentato in parrocchia dicendo di chiamarsi Michail e ha raccontato i fatti come li ricordava; ha accettato di collaborare con l’inchiesta, e quindi di presentarsi alla polizia, manifestando anche il desiderio di ricominciare, di iniziare un cammino di riabilitazione.
Georgij era rientrato pochi giorni fa da Kazan’, dove si era recato a sostenere un amico, Sergej, a cui la giovane moglie è morta improvvisamente in un incidente automobilistico. In un messaggio ha scritto: «Sono rientrato qualche giorno fa dai funerali… Che morte assurda, crudele… Stanotte, rigirandomi nel letto, continuavo a pensarci e chiedevo silenziosamente a Dio una risposta. E all’improvviso, come capita certe volte, mi si è svelato qualcosa che con la ragione non si riesce ad afferrare ma per il cuore è chiaro. Ho come intuito che il disegno di Dio abbraccia la vita, la vita di Elmira che è morta e la vita di quelli che ha lasciato. Che tutti gli avvenimenti, anche tragici, anche evidentemente suscitati dal male, si intrecciano nella trama della Provvidenza, che non cessa di tessersi in ogni istante. Mi si sono illuminate a giorno le parole del Vangelo: “Anche i capelli del vostro capo sono contati”… Dio mio, non avrei mai avuto il coraggio di parlare di queste cose così tremende, se non avessi vissuto io stesso in prima persona questa perdita, accompagnando il mio amico. Mi è divenuto chiaro che Elmira, la ragazza forte e allegra che conoscevo, ci ha aperto una strada. Ha aperto a me, e non solo a Sergej, le porte dell’eternità. È andata là, dove anche noi dovremo andare. E ora so che quando verrà per me il momento di andare, là mi stanno già aspettando…».
Queste porte dell’eternità, adesso, è Georgij ad aprircele.

Artemii Safyan

Moscovita, storico, filosofo, pubblicista. Dottorando in filosofia presso l’Università Lomonosov di Mosca. È specialista in filosofia moderna e patristica.

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