2 Ottobre 2024
Il sindacato di Naval’nyj
Nell’estate 2022 Aleksej Naval’nyj dalla colonia penale di Melechovo fondò il sindacato carcerario «Promzona», per garantire ai detenuti condizioni lavorative dignitose. Un’iniziativa osteggiata dalle autorità e presto soffocata, ma che fa risaltare le doti umane e professionali dell’oppositore morto in carcere nel febbraio di quest’anno.
«Per una roba del genere, in prigione, niente di più facile che ti ammazzino» – scriveva Aleksej Naval’nyj nell’agosto di due anni fa dalla colonia penale IK-6 di Melechovo: aver «fondato un sindacato dei detenuti e dei carcerieri (…) agli occhi dell’amministrazione carceraria sembra fin troppo arrogante».
Il leader dell’opposizione che nell’estate del ’22 stava scontando una condanna a 9 anni di colonia a regime di rigore per «appropriazione indebita», aveva lanciato Promzona, «il sindacato dei cittadini impiegati negli istituti del sistema penitenziario» che, «come tutti i lavoratori, hanno diritto a condizioni di lavoro dignitose».
Nasce Promzona
Promzona intendeva difendere innanzitutto i diritti dei detenuti costretti a svolgere «un lavoro da schiavi, quasi gratuito, in condizioni terribili. Sì, la maggior parte di loro sono criminali (anche se vi sono molti innocenti), tuttavia devono espiare il loro crimine secondo la legge, e lavorare secondo le regole», non secondo l’arbitrio dell’amministrazione carceraria.
Bastava un collegamento internet per poter interagire con il canale Telegram @industrial_zone – notare che anche nelle situazioni più critiche Naval’nyj non perdeva lo humour – e inviare segnalazioni, senza procedure formali che implicassero l’invio di documenti o dichiarazioni. Ma la cosa che più stupisce è che l’invito a partecipare al sindacato era rivolto a tutti, sia ai detenuti che agli agenti penitenziari. Nel libro Io non ho paura, non abbiatene neanche voi che presenta numerosi suoi scritti, emerge tutta l’apertura di mente e di cuore dell’avvocato, che se non lesinava rimproveri ai secondini, ne raccoglieva anche le malinconiche confidenze: «Vivo con moglie e due figli in 18 metri quadrati in un casermone dormitorio a Ljubercy» (un sobborgo operaio di Mosca) – gli confidò uno degli agenti mentre lo scortava al furgone cellulare.
Nel documento programmatico datato 26 luglio si prevedeva l’approvazione dello statuto, la nomina di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj a presidente, il versamento da parte del fondatore (ossia dello stesso avvocato) della somma di 10mila rubli «entro 3 mesi dalla data di costituzione del sindacato», l’apertura di filiali regionali a livello federale perché «è una cosa seria. E abbiamo già alcune vittorie al nostro attivo».
Secondo la prassi a lui ben nota aveva compilato la documentazione necessaria «e inviata comunicazione al direttore del Servizio Federale per l’Esecuzione delle pene nonché al responsabile della mia colonia», spiegava candidamente, come se si trattasse della classica trafila burocratica di un paese normale.
L’amministrazione della colonia invece non l’aveva presa bene: «La mia prima gratifica sono stati gli occhi sbarrati del personale amministrativo. Pensavano che scherzassi quando parlavo di sindacato. E ora lo definiscono esclusivamente “illegale”. Poi hanno iniziato a convocarmi ogni giorno alla commissione disciplinare e a rimproverarmi per ogni sorta di motivo formale, infine un’intera delegazione è venuta nella mia baracca per consegnarmi ufficialmente un “avviso di reato” relativo a quello che io, evidentemente, starei per compiere avendo fondato il sindacato”».
L’avviso si rifaceva a quanto previsto dall’articolo 20.2 del Codice degli illeciti amministrativi, che punisce la «violazione della procedura stabilita per l’organizzazione o lo svolgimento di riunioni, assembramenti, manifestazioni, cortei o picchetti» con un’ammenda che va da 10mila a 20mila rubli, oppure con un certo numero di ore di lavoro coatto.
Il tenente colonnello Jurij Fomin (uno dei vice-responsabili dell’IK 6 contro i quali l’Unione Europea ha imposto sanzioni), firmatario dell’atto, sperava che la cosa finisse lì, ma evidentemente non sapeva con chi aveva a che fare.
«Indipendentemente da ciò che pensa l’amministrazione della colonia – replicò Naval’nyj, – la creazione di Promzona è assolutamente legale», dato che le due condizioni previste dalla legge per fondare un sindacato sono l’età (il fondatore deve avere almeno 14 anni) e la condizione di lavoratore dipendente, ma non è previsto «che il fondatore o un tesserato non stiano scontando una pena».
La novità spaventò non solo l’amministrazione, ma anche gli stessi detenuti: «Ogni volta che ne parlo – confidava Naval’nyj sui social, – i miei criminali sospirano tristi: “Aleksej, piantala, per favore! Per colpa tua non verremo mai rilasciati e tutto finirà male”».
L’iniziativa di Naval’nyj è una spia di quello che l’avvocato dell’imprenditore Chodorkovskij definì «naufragio del diritto» nel sistema carcerario russo, dove «tecnicamente» funziona tutto e in superficie sembra più efficiente che da noi, ma all’interno i diritti umani e civili sono pressoché assenti. È teoricamente vera l’obiezione principale – sollevata anche dalla Federazione russa dei sindacati indipendenti, – ossia che il detenuto non è un libero cittadino che accetta un impiego, ma è costretto a lavorare dal regime carcerario (il che significherebbe, tra l’altro, ridurre la libertà sindacale a un diritto valido solo per un gruppo specifico di lavoratori), ma è altrettanto vero – ha sostenuto Naval’nyj di fronte alla cassazione – che «le persone non possono e non devono lavorare come schiavi, in condizioni disumane». In questo caso l’obiezione è viziata all’origine dalla natura repressiva del sistema carcerario russo.
La battaglia per una sedia confortevole
Un esempio di lavoro disumano era quello della sartoria, dove Promzona ottenne una prima vittoria.
«Secondo le normative, il posto di lavoro di un sarto dovrebbe essere dotato di una sedia girevole con schienale regolabile. In realtà, tutti i detenuti che vi lavorano siedono su sgabelli. Il mio era alto soli 42 centimetri. È insopportabile, una vera tortura, e dopo un paio d’anni il mal di schiena cronico è garantito.
Senza fare troppo chiasso il nostro glorioso sindacato ha avviato un dialogo costruttivo con il datore di lavoro – il sistema carcerario. Con l’aiuto degli avvocati della Fondazione per la lotta contro la corruzione, ho dimostrato dal punto di vista legale che dovevamo disporre di sedie con lo schienale.
All’inizio ciò ha suscitato sconcerto: il detenuto deve soffrire. Poi hanno iniziato a mentire dicendo che non eravamo seduti su sgabelli, ma su sedie (c’avete provato a dirlo, eh?!), ma poi – ta-daan! – sono apparse in sartoria le sedie con lo schienale, e i maledetti sgabelli li han portati via.
Ora uno dei compiti di Promzona è quello di ottenere pacatamente e in modo costruttivo la sostituzione degli sgabelli in tutta la zona, poi nella regione, poi per tutti i sarti delle varie zone della Russia».
È impressionante scorrere le «istruzioni dettagliate per i detenuti che si occupano di cucito» e che intendono chiedere «il rispetto delle normative sul lavoro nel sito di produzione specificato per quanto riguarda l’installazione di sedie da lavoro con altezza e schienale regolabili», in modo da porre rimedio alla situazione «dovuta al mancato rispetto dei requisiti dell’articolo 22 del Codice del lavoro, relativi all’attrezzatura del posto di lavoro in conformità con le norme di sicurezza»…
«Alcuni – proseguiva Naval’nyj – potrebbero pensare che sia una sciocchezza quella di procurarsi una sedia con lo schienale, ma ecco i numeri: ora nelle colonie penali ci sono 338mila detenuti, di cui 80mila con un lavoro, e il 50 per cento di loro si trova nelle sartorie. Pertanto, circa 40mila persone in questo momento sono curve su una macchina da cucire per 500 rubli al mese, sedute su uno sgabello, in palese violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. (…) L’acqua corrode la pietra e, come sempre, più persone partecipano a un’iniziativa collettiva, più questa risulterà efficace.
Sgretoleremo l’enorme elefante dei campi di lavoro coatto del sistema carcerario: le sedie, i poggiapiedi, i salari, gli standard di produzione… Piano piano risolveremo tutte queste faccende, anche se non mi faranno uscire dalla cella di punizione» – perché non va dimenticato che, mentre si occupava di sedie e sgabelli, Naval’nyj stava passando l’ennesimo periodo di isolamento.
E la cella fu ripitturata
Eppure, anche in isolamento – dove non si può ricevere visite, telefonare, avere prodotti alimentari o indumenti propri, ricevere pacchi né corrispondenza, – l’avvocato Naval’nyj fece di tutto per far ridipingere le pareti della cella. Lo racconta nel giugno 2023 nell’ultimo post del canale Telegram del sindacato, che intanto aveva superato i 10mila iscritti:
«Sei in cella di punizione. L’amministrazione carceraria cerca di renderti la vita insopportabile. Uno dei molti metodi che vengono costantemente utilizzati sono i muri: in cella di punizione stai sempre in piedi, o seduto su un orribile sgabello oppure su una panca. Nella vita ordinaria ci sediamo sempre con la schiena appoggiata. Perciò, dopo un po’, la schiena diventa rigida e anche una persona sana sente dolore. Seduti o in piedi, ci si vuole appoggiare almeno a una parete.
I furfanti del servizio penitenziario federale ricoprono i muri con una superficie irregolare e sconnessa, oppure – come la mia – con uno spesso strato di pittura. Ti ci appoggi e vieni ricoperto di gesso. Che ritrovi sul pavimento, nell’aria, sulla biancheria, sulla coperta (il letto è fissato al muro). La cosa principale da sapere è che è del tutto illegale.
(…) Ho intentato una causa. L’amministrazione non ha battuto ciglio: il tribunale è con loro e gli presenteranno una dichiarazione per cui “Abbiamo dipinto tutto secondo le norme”.
Poi, durante le ispezioni, quando tutti avevano con sé le videocamere, ho detto che avevo delle lamentele sulle condizioni delle pareti e ho immediatamente fatto scorrere il palmo lungo il muro, quindi l’ho puntato sul registratore, mostrando che la mia mano era ricoperta da uno spesso strato di gesso. (…)
Insomma, scoppia lo scandalo, è tutto in video e gli sbirri capiscono che finirà in tribunale. La corte, ovviamente, sarà ancora dalla loro parte, ma il giudice farà la figura dell’idiota, e non ne uscirebbe bene. Di conseguenza, dopo un paio di giorni vengo trasferito in un’altra cella e quando ritorno, tre giorni dopo, le pareti sono ridipinte.
Dico agli agenti: “Ah, l’hanno ridipinta! C’era proprio bisogno di fare tutto quel casino per sei mesi e carte false in tribunale?”.
Risposta: “Non sappiamo nulla. Nessuno ha dipinto niente qui, è sempre stato così”.
Che vadano al diavolo! Almeno ora posso prendere un libro, sedermi per terra e leggerlo, appoggiando la schiena al muro. Che emozione!».
Dalla seconda metà del 2023, quando cessarono i post su Telegram, il sindacato non ebbe più vita facile, i tribunali continuavano a respingere i ricorsi e lo stesso Naval’nyj subì la condanna a 19 anni in una colonia a regime speciale e ripetute incarcerazioni in cella d’isolamento.
A nulla valse la difesa della sua creatura davanti alla cassazione nell’ottobre 2023, in cui ricordò alla corte come lo stesso Putin «che voi probabilmente amate più di me, ogni 1° maggio si rivolge ai sindacati e dice: la vostra è un’attività meravigliosa, la Federazione Russa sostiene il sindacato».
Poi gli eventi precipitarono e Naval’nyj, come sappiamo, ebbe la peggio. Anche in ambito sindacale, il suo resta un tentativo, un esempio di come si possa vivere da liberi e organizzarsi per il bene comune anche in condizioni difficili.
«Spero – aveva scritto su Telegram – che il consiglio sia stato utile. Pace a tutti».
(foto d’apertura: youtube)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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