25 Luglio 2022

Insieme, per vivere e amare

Carlotta Dorigo

Per noi presi tra pandemie e guerre, le otto storie di famiglie raccolte nel libro “Insieme. Storie d’amore nel comunismo” assumono una particolare attualità perché testimoniano una speranza possibile in ogni condizione.

Vivere e amare sono un lavoro

La copertina del volume.

«Che cosa chiedere, se non di “entrare insieme nell’alba radiosa della Pasqua”? Ho fatto Pasqua da solo, ma sapendo con certezza che tu saresti andata alla liturgia ci sono stato anch’io, e ho provato una grande pace, un grande benessere. Vuol dire che eravamo insieme».

Con queste parole Sergej Fudel’ si rivolge alla moglie Vera in una lettera. Ormai da diverso tempo i due vivono separati: lei nei pressi di Sergiev Posad a fatica manda avanti la vita familiare, fatta di numerose bocche da sfamare; lui in una località sperduta della Russia del nord non ha possibilità di aiutarla; il loro non poteva dirsi un matrimonio felice. «Negli ultimi tempi siamo davvero diventati più intimi e cari a vicenda. – le confessa inaspettatamente lui – O è una mia impressione?… La distanza non divide, e né morte, né tempo hanno potere su un cuore che desidera amare». Erano lontani centinaia di chilometri, eppure, l’esperienza dell’unità del vincolo coniugale li teneva misteriosamente insieme.

Insieme è proprio il titolo del volume che presentiamo (Insieme. Storie d’amore nel comunismo, A. Bonaguro, M. Dell’Asta, G. Parravicini, La Casa di Matriona – Itaca 2022) e che raccoglie otto storie d’amore vissute in epoca sovietica. Oltre a quella della famiglia Fudel’, il lettore può incontrare le vicende del celebre poeta Osip Mandel’štam e della moglie Nadežda, dei coniugi cecoslovacchi Kamila e Vaclav Benda, o delle meno note figure di due sacerdoti ortodossi, Michail Šik e Il’ja Šmain, con le loro famiglie. Si tratta di storie legate sicuramente al loro tempo, perché le vicende storico-politiche connesse all’avvento dell’URSS, e le leggi approvate dal partito sul matrimonio, sulla religione, sull’educazione, condizionano profondamente la vita di ogni famiglia. Ma le questioni che queste persone, madri e padri, si trovano ad affrontare non hanno età.

Riguardano, ad esempio, le difficoltà economiche che sembrano sovrastare la vita, la mancanza di lavoro, lo scontro fra il desiderio di sopravvivere in relativa calma e l’amore per la verità, la sfida di educare i figli in un ambiente ostile e di trasmettergli ciò che si ha di più caro, compresa la fede. Sullo sfondo di queste preoccupazioni, spesso aggravate dall’incombenza minacciosa di una perquisizione, di un arresto, di una separazione, talvolta di una condanna a morte, affiorano, come per contrasto, i contorni della vita: una vita irriducibile che porta con sé grandezza e vertigine.

La vita dei figli, ad esempio, spesso messi al mondo in condizioni talmente precarie e difficili da richiedere ai genitori grande sacrificio e oblazione di sé: «In fondo, una vita in cambio di una vita non è tanto», dirà convinta Natalja Šik al marito dopo aver deciso di rinunciare alle cure per la tubercolosi per salvare la vita del figlio che porta in grembo.

vivere e amare sono un lavoro

Natalija e Michail Šik col figlio Sergej.

O la vita della persona amata, di quel «tu», come dirà Osip Mandelštam di Nadežda, con cui addentrarsi nelle «pieghe segrete del reale», con cui calarsi nell’istante fino a scoprirne il fondo ultimo, il Volto, il mistero che racchiude tutte le cose. E allora davanti a questa Vita, così grande e così misteriosa, con tutti i suoi drammi e le sue gioie, i protagonisti di queste storie non si risparmiamo: piangono, soffrono e offrono tutto. E lo fanno insieme.

Il libro racconta storie di uomini e donne di fede, ma di una fede senza fronzoli, a volte incontrata in tenera età, altre solo più avanti negli anni. Spesso è una fede semplice ed essenziale, viva, purificata dall’indigenza materiale, dalla durezza della vita in lager, dal fatto che spesso nell’amicizia e nella vita cristiana il bene è immediato, subito riconoscibile e desiderabile. Una fede che chiede scelte radicali e rischiose (anche solo per ricevere i sacramenti), e che in nessun modo impedisce la sofferenza e la croce. Semmai le offre come via privilegiata.

Per alcuni protagonisti del libro è stato così: quel volto da trovare insieme al fondo delle cose aveva proprio i tratti del Cristo crocifisso. «Quel giorno – lo sai? – feci due promesse: una a te, e l’altra a Cristo crocifisso», scrive nel 1921 Natalja Šik al marito ricordando il giorno delle nozze. Lui, a sua volta, onorerà la croce poco dopo l’arresto, tracciandola in segno di affidamento sul vetro appannato del treno che lo conduce in prigione. E non è un caso che morirà dopo qualche tempo proprio il giorno della festa dell’Esaltazione della croce. Così come non è un caso che il sermone del matrimonio di Sergej Fudel’ e della moglie Vera, celebrato al confino, è di sole quattro parole: per crucem ad lucem. O che quello di andare alla luce attraverso la croce è proprio il destino dell’ex ufficiale Georgij Osorgin, un’altra figura straordinaria di cui il libro racconta, che nel lager delle Solovki, mentre andava incontro alla fucilazione, qualcuno sentirà cantare «Cristo è risorto».

Vivere e amare sono un lavoro

Vera e Sergej Fudel’ col figlio Nikolaj.

Si tratta di gesti umani eccezionali che però non devono indurci a credere che queste siano storie di gente perfetta. Tra le pagine del volume ogni persona emerge col proprio temperamento e col proprio carattere, spesso scomodo o di impiccio a che la relazione con l’altro sia autentica; la meschinità, la miseria, la dissolutezza, a volte anche morale (la vita sentimentale turbolenta dei Mandel’štam fatta anche di relazioni extra-coniugali, ne è un esempio), non sono un ostacolo: lì dove la miseria è toccata dalla grazia queste storie testimoniano l’aprirsi di strade straordinarie e inattese, e la vita fiorisce nel bello e nel bene.

Un bene che pian piano si infiltra nei pertugi lasciati aperti da una violenza che dilaga ma che non riesce a fare terra bruciata dietro di sé. E spesso queste famiglie sono dei veri rivoli di acqua nuova; attirano parenti, amici, esuli, membri della Chiesa clandestina, monache rimaste senza dimora, gente che compariva e scompariva nell’arco di una notte, e di cui era meglio non conoscere l’identità per evitare di lasciarsi sfuggire informazioni nel caso di un interrogatorio. Anche i figli si abituano presto a questo tipo di vita: a scuola era normale tacere su quello che succedeva ai genitori, a casa prendere tutta una serie di accorgimenti prima di aprire la porta, o immedesimarsi nelle avventure di mamma e papà giocando ai «dissidenti» o all’ammutinamento. Capitava che queste famiglie aprissero generosamente la propria casa anche alle generazioni più giovani e in cerca di madri e padri nello spirito. Casa Vedernikov ne è un esempio eclatante: la dimora di Anatolij ed Elena, ormai piuttosto anziani, diventa il fulcro di un fermento giovanile che vedrà tra le sue file anche una giovane Ljudmila Uličkaja. Si tratta di una vocazione ai rapporti umani che i due coniugi accolgono con generosità.

La pienezza della vita come vocazione, la scoperta del proprio posto nel mondo, l’urgenza di realizzare il proprio compito, è ciò che forse più di tutto queste famiglie ci testimoniano. Il matrimonio diventa infatti il luogo dove aprirsi alla vocazione personale, cioè al rapporto personale col Signore. E quando in alcune famiglie per il marito si palesa la vocazione al sacerdozio, come nel caso dei padri Šik e Šmain, peraltro ordinati in condizioni tutt’altro che favorevoli, le mogli non si sentiranno mai estranee alla chiamata dei mariti, ma anzi co-responsabili. Ed è in fondo la stessa responsabilità che Nadežda Mandel’štam prende su di sé nei confronti della vocazione poetica di Osip, e dei suoi versi, che passerà anni e anni a memorizzare affinché sfuggano all’oblio. Perché, diceva, «ciascuno di noi è responsabile di tutto».

Vivere e amare sono un lavoro

I coniugi Šmain durante uno degli incontri di catechesi in casa loro.

Così, in queste storie, si scorge quasi un affanno nel fare il bene, nell’opporsi fermamente al male, nell’inseguire un’iniziativa buona che la nostra libertà è sempre in grado di prendere.

«Bussate e vi sarà aperto» suggerisce Fudel’ al figlio che gli confida di volersi sposare, «se non bussi non possono aprirti», occorre essere insistenti. Questa insistenza racchiude il cuore di queste storie, perché dice di una grande fiducia nella Provvidenza: è l’insistenza di chi non smette di bussare, perché sa che la porta è quella di un padre che non abbandona i suoi figli. E allora queste persone si muovono, si danno da fare in molti modi, corrono da un ufficio all’altro per sapere il destino del coniuge, si spendono per aiutare i compagni di cella, cercano i lavori più diversi per campare e portare a casa quattro spicci.

E poi si accorgono che la vera insistenza, la vera iniziativa è quella di Dio, a volte eclatante, altre discreta e silenziosa. «Dio ha pietà dei suoi piccoli e li nutre» legge Vera Fudel’ inciso su un vecchio biberon di metallo. La figlia lo aveva trovato per terra e, pensando fosse prezioso, glielo aveva portato per aiutarla; sapeva infatti che la madre stava attraversando un momento di estremo scoraggiamento di fronte alla fame e alle tasche vuote. «Signore – disse allora Vera dopo aver letto – e io che invece mi stavo perdendo d’animo. Ce la faremo, ecco la risposta ai miei pensieri…».


(foto: pastvu.com)

Carlotta Dorigo

Nata a Portogruaro (VE) nel 1994, nel marzo 2019 ha conseguito la laurea magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, discutendo una tesi sulle implicazioni etiche e religiose del pensiero politico di Robespierre.

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