25 Settembre 2024
Ján Havlík, un «fallito» riconosciuto beato
Beatificato il 31 agosto, il seminarista slovacco Ján Havlík passò 11 anni tra carcere e campi di lavoro sotto il regime comunista, ponendo sempre al primo posto la fedeltà a Cristo e alla Chiesa, compassionevolmente attento ai drammi di coloro che incontrava.
A prima vista, la vita di Ján Havlík è stata un fallimento: voleva farsi prete ed è riuscito solo a pronunciare i voti temporanei, fu arrestato a 23 anni e uscì dal carcere a 34 con la salute rovinata, tanto che non era in grado di lavorare e dovettero assisterlo i genitori. Morì per strada, appoggiato a un bidone del carbone, a 37 anni. «Uomo di speranza», è stato beatificato come martire il 31 agosto scorso presso la basilica mariana di Šaštín, dedicata alla Vergine dei Sette dolori, patrona di Slovacchia.
Ján nacque il 12 febbraio 1928 a Vlčkovany (oggi Dubovce), un paesino della regione di Trnava, primogenito della famiglia di Karol e Justína (nata Polláková). La sua era una delle tante famiglie povere che vivevano in quelle zone agricole e che risentirono della crisi economica dei primi anni ’30.
Ebbe una giovinezza caratterizzata da sacrifici, come i chilometri fatti a piedi per raggiungere la scuola di Holíč, e poi dal 1941 i chilometri in bicicletta per arrivare al ginnasio di Skalica. Non c’erano soldi per l’autobus, e gli autisti preferivano far salire le donne dei villaggi che portavano al mercato il pollame. Una volta Janko stava tornando da scuola con gli unici abiti pesanti a sua disposizione, gli stivali e il cappotto del padre. A Holíč una signora lo notò e lo chiamò, gli regalò un giaccone, delle scarpe e un paio di pantaloni del figlio – «Un cappotto di pelle di camoscio di un bel colore grigio-verde, che indossai anch’io anni dopo» – ha ricordato Anton, il fratello minore di Ján. Fu un regalo di una donna sconosciuta che portava una stella gialla cucita sul cappotto. La Slovacchia infatti era diventata uno Stato fantoccio della Germania nazista.
Dai lazzaristi
Nel 1943 Ján entrò nella Scuola apostolica della Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli a Banská Bystrica, dove erano accolti gratuitamente i ragazzi delle famiglie povere desiderosi di studiare e approfondire la vocazione sacerdotale.
I lazzaristi – e con essi le figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli – erano molto numerosi in Slovacchia, presenti dalla seconda metà del XIX secolo, e la loro missione era diretta soprattutto ai poveri, ai malati, agli anziani, agli orfani, ai carcerati.
Nel 1950 operavano ancora oltre 1000 suore, alle quali si aggiungevano 22 tra sacerdoti e religiosi. Gli attacchi nei loro confronti iniziarono già dopo la Seconda guerra mondiale e prima ancora del colpo di Stato comunista, perché si voleva impedire la diffusione di opinioni critiche nei confronti della nuova politica statale che in Slovacchia guardava con sospetto la Chiesa, dato che negli anni precedenti si era immanicata politicamente con il governo guidato da monsignor Tiso.
Uno dei primi ad essere preso di mira sulla base di false accuse fu quell’impetuoso padre Štefan Krištín che sarebbe stato uno dei professori di Havlík e con lui avrebbe condiviso il carcere. Ma fu soprattutto durante tutti gli anni ’50 – dopo le famigerate Operazioni K2 contro gli ordini religiosi maschili in Slovacchia (maggio 1950), e R contro quelli femminili (agosto 1950) – che molti cristiani finirono ripetutamente sul banco degli imputati, accusati di ogni genere di malefatte: il regime comunista temeva infatti il lavoro quotidiano dei «pastori con l’odore delle pecore».
Nel 1949, dopo il diploma, Havlík entrò nel noviziato. Dopo la chiusura della Scuola apostolica, Ján e oltre duecento tra seminaristi e religiosi di vari ordini furono costretti a trasferirsi a Kostolná (Trenčín) per un periodo di «rieducazione politica» che doveva forgiare l’uomo nuovo socialista. Da lì furono poi trasferiti al cantiere della diga di Púchov, dove nelle baracche furono alloggiati separatamente (la baracca «del Vaticano») dagli altri giovani provenienti da tutto il paese. Le persecuzioni antireligiose non avevano ancora raggiunto il culmine, e ci fu spazio anche per la goliardia, come nel caso dell’incontro di pallavolo «Vaticano – Porte degli Inferi», in cui furono soprattutto i salesiani a battersi da campioni essendo lo sport parte integrante della loro formazione. Anche Ján fu cooptato, per via della statura che superava il metro e 90.
Allo stesso tempo nel cantiere era ancora possibile vivere comunitariamente la fede, sia pur con qualche accortezza: i seminaristi si alzavano prima della sveglia, e grazie alla presenza di alcuni sacerdoti potevano partecipare alla messa celebrata di nascosto, perché qualsiasi riunione doveva essere approvata dalla direzione.
Con l’imperversare della politica antireligiosa, l’unica possibilità rimasta ai seminaristi era la facoltà teologica di Bratislava, che però era sotto il controllo dello Stato. Per Ján non fu un momento facile, pregò Dio che gli indicasse la strada, per poter «rimanere fedele all’apostolato. La Croce di Cristo non si deve nascondere davanti alla gente». «Dobbiamo stare insieme – disse agli amici seminaristi, – dobbiamo continuare a studiare». Così fecero, si trovarono un lavoro e proseguirono la formazione teologica clandestinamente in un appartamento di Nitra: erano i fratelli Ján e Anton Havlík, Vojto Krištín, Bohuslav Pikala, Vladko Slávik e Milan Faško-Kaclík.
L’arresto e la condanna
La cosa andò avanti fino 29 ottobre 1951, quando a causa di una soffiata la polizia arrestò loro e padre Krištín. Il processo «al gruppo Štefan Krištín» fu l’occasione per scoraggiare tutti coloro che volevano studiare teologia indipendentemente dal controllo dello Stato. Dopo interrogatori e torture, dal 3 al 5 febbraio 1953 si svolse il processo-farsa presso il tribunale di Nitra. Ján fu accusato di alto tradimento (art. 78 c.p.) come «acerrimo nemico dell’ordine popolare democratico», reo di «aver rubato beni monastici, libri e gioielli», di aver «ascoltato i notiziari propagandistici della Radio Vaticana», e di aver ricopiato «poesie e canzoni antistatali» «per un intero gruppo di sovversivi che si preparavano a compiere reati».
Le condanne dovevano essere esemplari: padre Krištín all’ergastolo (poi commutato in 25 anni), Havlík a 14 anni di reclusione (ridotti poi a 10 in appello), a 10.000 corone di multa, alla confisca dei beni e alla perdita dei diritti civili per 10 anni. Anche suo fratello Anton fu condannato a 8 anni.
Dopo una breve permanenza nel carcere di Ilava, con le sue baracche fatiscenti, nel marzo del ’53 il «gruppo di Nitra» fu sparpagliato qua e là nei campi di lavoro, soprattutto nella zona mineraria di Jáchymov, in Boemia settentrionale, dove si estraeva il minerale di uranio per l’industria sovietica. Qui Ján divenne parte della «forza lavoro coatta» con il numero AO-11355, lavorò come minatore, allo scavo dei pozzi e alla perforazione della pechblenda nei campi Rovnost, Nikolaj, e poi a Bytíz nella zona di Příbram a pochi chilometri dal santuario mariano di Svatá Hora.
Durante gli anni trascorsi da Havlík tra carceri e campi di lavoro si lasciò coinvolgere in ogni sorta di «delitti», aiutò a scrivere lettere, riuscì a procurarsi dei libri e offrì conforto e preghiere a molti, credenti e non credenti. «Mi sento in missione – diceva, – perché nessun missionario potrebbe desiderare un posto migliore e più esigente di questo. Se solo ci fosse più tempo, se solo il nostro lavoro non ci torchiasse così tanto».
Lo sostennero l’amicizia con i compagni di detenzione e le messe clandestine nelle catacombe del XX secolo, dove non c’erano né marmi né colonne, ma solo «un tabernacolo scavato nelle profondità della terra, intessuto di vene d’oro, d’argento, di uranio e di ferro e di tanti minerali che in quel momento ornavano il tempio di Dio».
E poi la testimonianza della fede e la carità verso tutti.
Un giorno fece conoscenza con un certo Jozef, che anni addietro si era trovato invischiato in una brutta storia di omicidio che ancora gli pesava sulla coscienza e scontava la sua condanna come espiazione, «affinché la sofferenza gli restituisse la pace e un volto umano». Ján fu molto colpito dal suo caso e lo invitò ai momenti di preghiera clandestina, e per toglierlo dalla baracca di punizione in cui era stato rinchiuso, col fratello Anton si inventò il «riscatto degli schiavi»: per la direzione, un detenuto che dava scarsi risultati – come Jozef – era un peso morto, perciò favoriva il suo inserimento in una brigata di lavoro dove erano gli stessi detenuti a spingerlo a lavorare. Jozef fu così il primo dei riscattati che furono inseriti nel gruppo dei fratelli Havlík.
«Uomo di speranza»
Ancora, la formazione continua a beneficio di tutti: nel campo di Bytíz, in fondo al pozzo, s’era ritagliato nella roccia una sorta di scriptorium, dove trascrisse l’Umanesimo integrale di Maritain per i suoi compagni di prigionia, usando una matita e fogli di carta copiativa. «Circa 350 pagine! Mi sono chiesto – ha detto il cardinal Semeraro nell’omelia per la beatificazione – perché mai egli si sia sottoposto a un lavoro così faticoso e anche rischioso. Ho, dunque, trovato in quell’opera pagine che descrivono la situazione che Ján Havlík stava vivendo. La verità – vi si legge – è che si tratta di una persecuzione mascherata; in realtà è una lotta contro Dio, di sterminio della religione, lavoro di distruzione spirituale. L’essenziale è di tener prigioniera la parola di Dio1. A tutto questo il nostro beato oppose la fedeltà a Dio, la fedeltà alla propria vocazione, alla propria scelta di carità verso il prossimo».
Il lavoro in condizioni precarie e disumane, e alcuni incidenti in miniera compromisero gravemente la sua salute. Mal curato, un nuovo calvario lo aspettava nella prigione di Praga-Pankrác, dove lo trasferirono nel 1958 per rispondere dell’accusa di sovversione proprio a causa della sua attività missionaria. Qui lo trattarono anche con psicofarmaci prescritti dal dottor Josef Sommer, una specie di Mengele cecoslovacco: «Ho l’impressione – scrisse – che stessero aggiungendo una specie di veleno al mio cibo». Fu tenuto in isolamento per due mesi fino all’udienza del febbraio 1959, quando fu condannato a un anno di carcere che si aggiunse ai 10 originali. Con due condanne sarebbe stato impossibile ottenere qualsiasi provvedimento di grazia.
Nel maggio 1959 invece di essere ricoverato per complicanze cardiache fu trasferito al carcere dell’ex certosa di Valdice. All’epoca vi erano rinchiusi anche padre Krištín e il provinciale dei lazzaristi Ján Hutyra, ma non sappiamo se siano entrati in contatto: «Si associa a condannati del suo stesso orientamento – si legge nel fascicolo, – e quindi dovrà essere isolato anche mentre sconta la pena».
Nell’ottobre 1960 fu trasferito nuovamente nel carcere di Praga per essere inviato come forza lavoro all’azienda edile Stavobyt. Solo l’insistenza di un medico fece sì che potesse essere ricoverato, ma il Ministero della Giustizia respinse la grazia perché «dal punto di vista politico, non è cambiato per niente e permane nelle sue opinioni».
San Vincenzo de’ Paoli, ha ricordato Semeraro, «diceva che occorre “imitare la luce del sole che illumina e riscalda e, sebbene passi sopra cose immonde, nonostante questo non si sporca”2. Il nostro beato conosceva certamente queste parole ed egli è stato davvero un raggio di sole per quanti lo incontravano», persino con gli aguzzini. Nelle fonti viene menzionato un Natale passato da Ján in cella di isolamento. Era la vigilia, e nel corridoio a un certo punto si sentì un trambusto, con il capo delle guardie che gridava contro un detenuto. Ján provò un senso di comprensione per il soprintendente che probabilmente pensava ai suoi figli, e non poteva essere a casa con loro. Si aprì la porta della cella, Ján si mise sull’attenti: «Signor soprintendente, mi conceda un minuto: vorrei augurare a lei e ai suoi cari che ora sentono la sua mancanza, tanta pace, gioia e grazie per il Natale di quest’anno». Avrebbe potuto sbattergli la porta in faccia, invece fissò il detenuto e con voce soffocata disse: «Grazie». La sera stessa «il volto umano del soprintendente si manifestò di nuovo»: «Venga a scegliersi qualcosa da leggere. So che non ha libri qui, dev’essere già molto tempo che sta da solo».
Nell’ottobre 1961 Havlík fu trasferito all’ospedale della prigione di Ilava, completamente inabile al lavoro. Anche qui ebbe modo di «passare beneficando» tra i detenuti malati, e spesso Ján si accorgeva che sotto quei volti ruvidi e inaccessibili c’era un animo nobile che si premurava di presentare nelle preghiere a Dio. Un giorno li «costrinse» persino a festeggiare la festa di Cristo Re, riuscendo miracolosamente ad alzarsi dal letto e a servire il tè a tutti: «Fratelli, chiediamo al Salvatore, Cristo Re, di accogliere i nostri cuori, le nostre anime, le nostre vite nel suo regno d’amore, di trasformare i nostri dolori, le nostre malattie e la nostra mancanza di libertà, nel biglietto d’ingresso al regno promesso di pace e di gioia. Offriamoci a Lui così come siamo». Uno dei più burberi e scontrosi, detto «il vecchio Ignác», rimase serio e dopo un po’, visto che anche gli altri tacevano, disse: mi sento come dopo una cura, mi sembra di aver preso una boccata d’aria fresca.
Il 29 ottobre 1962 Ján tornò in libertà (vigilata, perché la sua «rieducazione» non aveva avuto successo), e andò a vivere dai genitori per poi trasferirsi dal fratello. Riuscì ad ottenere la pensione di invalidità, ma dato che era stato in carcere fu abbassata anch’essa a 300 corone (circa un quarto di uno stipendio medio). Alternando periodi di ricovero riprese in mano i libri e si rimise a lavorare, traducendo dal tedesco testi spirituali, e aiutò il parroco a preparare i bambini ai sacramenti.
Quel 27 dicembre 1965, due giorni dopo aver passato il Natale con i familiari, per la strada fu colto da malore. Fu notato e soccorso dal dottor Barát che lo fece stendere sul letto di casa, ma fu tutto inutile. Sua moglie, infermiera, riconobbe in Ján «il nostro ragazzino», come lo chiamavano scherzosamente in ospedale.
Havlík – ha concluso Semeraro nella sua omelia – è un esempio proposto non solo ai cristiani ma anche «a tutti coloro che operano a favore della dignità umana e per la libertà di coscienza. È qui l’attualità di questa beatificazione, poiché in molti casi e pur in contesti diversi è difficile, talvolta eroico, rimanere fedeli a Cristo. Rimangono valide le parole di Gesù, udite durante la proclamazione del Vangelo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9, 24). Spiegava san Gregorio Magno: “È come se si dicesse al contadino: se conservi per te il grano lo perdi; se, invece, lo semini, lo fai rinnovare e crescere”».
Con don Titus Zeman, «martire per la vocazioni», e Anka Kolesárová «martire della purezza», beatificati rispettivamente nel 2017 e nel 2018, salgono a tre le figure del recente passato slovacco che la Chiesa indica come modelli di fedeltà a Cristo.
(Foto d’apertura: postoj.sk)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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