5 Maggio 2016

Liberaci dal vano parlare

Artemii Safyan

Il dono della parola è il più fragile e delicato. È troppo diffuso il «vano parlare», è troppo facile storpiare la lingua, svuotarla, vanificarla. Ma una parola vacua chiude l’accesso alla realtà.

In quaresima il mondo ortodosso fa sua la preghiera di sant’Efrem il Siro, sia nelle celebrazioni liturgiche, sia nella regola di preghiera individuale:

«O Signore e Maestro della mia vita,
togli da me lo spirito di ozio, scoraggiamento, brama di potere e vano parlare.
Dona invece al tuo servo uno spirito di castità, umiltà, pazienza e amore.
Sì, Signore e Sovrano, concedimi di vedere i miei errori e di non giudicare il mio fratello;
perché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen».
L’incessante ripetizione di questa invocazione in uno dei tempi più importanti del ciclo liturgico indica che la tradizione dell’Oriente cristiano ha visto in essa qualcosa di fondamentale per comprendere che cosa sia il pentimento.
In questa preghiera i fedeli chiedono a Dio di liberarli in particolare da quattro passioni: ozio, scoraggiamento, brama di potere e vano parlare. Se il pericolo mortale che si cela nelle prime tre è abbastanza evidente alla coscienza dei cristiani, il vizio del «vano parlare» viene spesso guardato in maniera tutt’altro che univoca. L’uomo d’oggi, che vive nello spazio informatico, è incline a vedere in questa concezione, che identifica nel «vano parlare» un peccato, una sorta di relitto del passato, o più semplicemente non vi presta alcuna attenzione.

Parole decadute

La nostra società sta perdendo quella che potremmo chiamare «cultura del linguaggio e della parola». Nel flusso ininterrotto di informazioni, la parola cede gradualmente il posto all’immagine. Nel mondo della cibernetica abbiamo la possibilità di vivere simultaneamente in svariati spazi linguistici. Perfino nel quotidiano la persona parla più lingue: il modo di comunicare al lavoro, a casa, in chiesa è radicalmente diverso. Parrebbe che l’accesso all’informazione non possa che arricchire il linguaggio. Ma nella realtà avviene il processo inverso: le parole si staccano dagli oggetti che esprimono, il loro significato si dissolve. Per questo non c’è da meravigliarsi che a noi, uomini d’oggi, sia estranea l’idea che il «vano parlare» possa essere un peccato. È la natura stessa della società odierna a spingerci a pensare così.
Nel cristianesimo invece vediamo un atteggiamento completamente diverso, trepido e profondo, nei confronti della lingua e della parola. Nei testi biblici il discorrere è legato a Dio stesso, che crea il mondo con la Parola: «E Dio disse…» (Gen 1,3), «E Dio chiamò…» (Gen 1,5), ecc. Proprio dando loro un nome il Creatore «chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17).
La stessa Rivelazione divina è donata all’uomo attraverso il linguaggio. E non si tratta semplicemente di un monologo divino, la Bibbia costituisce piuttosto un dialogo tra Dio e l’uomo. Come scrive padre Georgij Florovskij: «Dio si rivela all’uomo, gli appare, parla e si intrattiene con lui… Noi vediamo come Dio si abbassa fino all’uomo e gli si rivela, e vediamo come l’uomo si incontra con Dio – non si limita a prestare ascolto alla Sua voce, ma gli risponde. Nella Bibbia non sentiamo solo la voce di Dio, ma anche la voce dell’uomo che gli risponde, attraverso parole di preghiera, di gratitudine, di lode, di trepidazione e di amore, di tristezza e di pentimento, di ammirazione, di speranza e di disperazione… Al mistero della Parola di Dio appartiene anche il riverbero che questa trova nell’uomo. Non è un monologo di Dio, ma piuttosto un dialogo, dove a parlare sono sia Dio che l’uomo. In questo è il paradosso e il mistero della Rivelazione».

Parola e Verbo

La coscienza cristiana vede dunque il linguaggio a fondamento dell’esistenza del mondo e del rapporto tra Dio e l’uomo. Le parole esprimono l’essenza delle cose, conferiscono loro un senso. Proprio per questo Adamo viene incaricato di dare un nome agli animali (Gen 2,19-20). Creatura sulla soglia tra il mondo materiale e quello spirituale, mediante il linguaggio l’uomo può restituire alla natura il suo status primigenio conforme al disegno di Dio, colmo di un significato personale.
I Padri orientali della Chiesa hanno molto riflettuto su questo, in particolare Massimo il Confessore, la cui teologia ha mostrato con particolare intensità l’essenza escatologica del cristianesimo. Egli parla dei cosiddetti «logoi». Dio Verbo è l’inizio e la fine di tutto ciò che esiste. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3), e tutto in Lui si compie. I logoi sono sostanzialmente «proiezioni» increate di Dio nel mondo, che ne sostengono l’esistenza e lo innalzano fino alla propria Fonte. La parola umana è di fatto l’incarnazione materiale di queste «proiezioni» divine, perché proprio grazie a essa le cose ricevono significato, logica. Infatti il nome ci riporta necessariamente – dicono i Padri – all’essenza di colui che è nominato. In quanto creatura fatta a somiglianza di Dio, l’uomo innalza a Dio mediante la propria persona tutto l’universo inanimato, e la lingua svolge qui praticamente un ruolo primario. Anche san Basilio di Cesarea mette in relazione la capacità discorsiva alla somiglianza divina propria dell’uomo: «Siamo stati condotti dal non essere all’essere, creati a immagine del Creatore, abbiamo la ragione e la parola che costituiscono la perfezione della nostra natura e mediante le quali possiamo conoscere Dio».
Un grande teologo e asceta del XX secolo, padre Sofronij Sacharov pensava la lingua umana come immagine viva, «visibile» del Verbo Eterno. In primo luogo si riferiva, naturalmente, alla lingua liturgica: «Le parole della Liturgia e delle preghiere in generale non sono semplicemente umane, ma anche un dono dall’Alto. Il linguaggio ecclesiale attiene alla sfera del Divino, deve esprimere la rivelazione dello Spirito e le visioni interiori da Esso generate».
Nella tradizione del cristianesimo occidentale possiamo vedere le stesse intuizioni. Ad esempio, nel suo libro Il metodo in teologia Bernard Lonergan intende la parola come un aspetto sostanziale del cristianesimo. Proprio grazie ad essa, il cristianesimo «riveste il mondo del suo profondissimo significato e altissimo valore».
La religione stessa, secondo Lonergan, prima ancora di ogni sua istituzionalizzazione, prima di ogni sua connessione con contesti culturali e sociali, è parola divina rivolta all’uomo. Questa parola è l’intenzione primaria del cristianesimo; può a volte cadere in oblio, oscurarsi a seconda delle congiunture storiche o politiche, ma continua pur sempre a sussistere nella Chiesa.
È una parola diversa da quelle pronunciate dall’uomo, rivolte all’esterno. Non subisce condizionamenti temporali o storici, non soggiace a equivoci. La parola di Dio è un’espressione diretta, eterna, di Amore, Perdono e Misericordia. La lingua in cui il Signore si rivolge a noi offre il fondamento alla lingua della comunicazione interpersonale: «L’amore parla all’amore, e il suo discorso è pieno di forza. Il leader religioso, il profeta, Cristo… annuncia attraverso segni e simboli qualcosa che si accorda con il dono d’amore creato da Dio dentro di noi».
Così nel cristianesimo la parola passa in primo piano. Si osservi che nella tradizione teologica orientale non esiste una sezione appositamente dedicata alla lingua, eppure questo tema attraversa come un fil rouge tutto il pensiero dei Padri.
Anche solo in base a questi accenni, è facile rilevare che condannando il «vano parlare», la Chiesa in realtà salvaguarda una delle doti umane più elevate. È difficile trovare, fra tutta la ricchezza dei doni fatti all’uomo, una dote più fragile e delicata della lingua. Si fa più in fretta a storpiare la lingua che qualunque altra cosa, basta semplicemente svuotarla, vanificarla: non ci resterà che un’illusione acustica, priva di vita, di musica, di spirito. La parola vacua sbarra l’accesso al mondo per chi la pronuncia. Invece una parola vera conduce sempre a qualcosa, si volge a qualcosa, esprime qualcosa. E in ciò che esprime dà voce alla realtà inanimata.
Proprio per questo nella preghiera di Efrem il Siro la Chiesa prega il Signore di liberare l’uomo dal «vano parlare», che altro non è che una deformazione dell’Immagine e Somiglianza di Dio. Il peccato contro la parola è ben più pericoloso di quanto possa supporre l’uomo di oggi. Le parole della preghiera quaresimale fanno eco al salmo «Poni, Signore, una guardia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra» (Sal 140,3). Adesso comprendiamo meglio le parole di Cristo, che di primo acchito possono sembrarci troppo dure: «Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio» (Mt 12,36). Questa categoricità è conseguenza dell’altissima vocazione e dignità che è stata donata all’uomo insieme con la dote del linguaggio.

Artemii Safyan

Moscovita, storico, filosofo, pubblicista. Dottorando in filosofia presso l’Università Lomonosov di Mosca. È specialista in filosofia moderna e patristica.

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