23 Febbraio 2016

Uscire dal ghetto

Andrej Desnickij

Più si allontana l’incontro di Cuba, più emergono pareri “non d’occasione”, e sono una doccia fredda. Come se per molti ortodossi l’inerzia del passato vincesse sul nuovo. Dov’è allora la speranza?

«Il Patriarca non può incontrarsi con il Papa, perché se questi gerarchi si incontrano devono baciarsi, devono tendersi la mano, e questa sarebbe un’immagine falsa. Piacerebbe molto a chi svolge un’attività missionaria contro il nostro popolo. Queste persone direbbero: vedete che non esiste nessuna differenza, il Papa e il Patriarca si baciano e si abbracciano, che altro volete?». Così aveva detto 12 anni fa il capo del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca metropolita Kirill, nostro attuale Patriarca. I tempi cambiano, e con essi cambiamo anche noi – questa saggezza la possedevano già gli antichi.


Si può ragionare a lungo sul fatto che questo incontro avesse molte più motivazioni politiche che non spirituali. Infatti, per il Cremlino è molto importante presentarsi come il baluardo di tutta l’umanità conservatrice e l’ultimo bastione del cristianesimo, e per il Patriarcato dimostrare che al dialogo con i cristiani occidentali a nome del mondo ortodosso non partecipa soltanto Costantinopoli, ma anche Mosca. La cosa è particolarmente attuale alla vigilia del Concilio panortodosso che si svolgerà quest’anno.
Si, è tutto vero.
Svalutare questo incontro è molto facile. Eppure io lo vedo come un evento molto importante, se non addirittura epocale.
E al primo posto non vengono i documenti o le parole che Francesco e Kirill si sono detti a voce, guardandosi negli occhi (e di cui non sappiamo niente), ma il fatto stesso che l’incontro sia avvenuto.

Negli ultimi anni ci siamo abituati a sentire dai vertici della gerarchia ammonimenti sulla necessità di tutelare il «mondo russo» e la civiltà ortodossa, sull’ostilità del mondo circostante e sui traditori al nostro interno. Di Cristo e del Vangelo si parla molto più raramente.
Questo non vale soltanto per l’episcopato. Osservate i temi ai quali sono state dedicate le «Conferenze natalizie» degli ultimi anni, il forum ortodosso più importante e rappresentativo nel nostro paese. I valori, il patrimonio che abbiamo, le tradizioni, la famosa «scelta di civiltà» (che cosa vorrà dire, alla fine?)… Ma dove si parla, almeno un po’, della fede, di Dio e dell’uomo?
E poi, ecco il tipico elenco delle «linee operative», rimasto praticamente immutato negli ultimi anni: cooperazione con i tutori della legalità, con lo Stato, con i cosacchi. Sulla Sacra Scrittura, ad esempio, neppure una parola. Non suscita interesse: l’hanno già interpretata una volta per tutte i santi Padri, e se c’è qualcosa di poco chiaro si può sempre domandare al parroco. Quanto a noi, faremo meglio a cooperare con i cosacchi e i tutori della legalità per estirpare sacrilegi e oscenità dalla terra natia.

Adesso provate a leggere la prima proposizione della dichiarazione congiunta del Papa e del Patriarca: «Per volontà di Dio Padre dal quale viene ogni dono, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, e con l’aiuto dello Spirito Santo Consolatore, noi, Papa Francesco e Kirill, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, ci siamo incontrati oggi a L’Avana. Rendiamo grazie a Dio, glorificato nella Trinità, per questo incontro, il primo nella storia. Con gioia ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana…».
A questo punto gli ortodossi «zelanti» cominceranno a schiumare, abituati come sono alla retorica delle «crociate del Vaticano contro la santa ortodossia». Noi siamo la «Terza Roma», ultima e definitiva, che ce ne importa della Prima? Dobbiamo pensare a costruire il «nostro» mondo, il «mondo russo»!
Altri invece osserveranno che finalmente si è cominciato a parlare della cosa essenziale.

Qualcuno dirà: lasciate perdere, è come in epoca sovietica: per l’estero si usa una retorica particolare. Non nego che ci possa essere anche questo. Ma, come in epoca sovietica, questa retorica muterà inevitabilmente anche il quadro all’interno del paese.
Un tempo l’URSS sottoscrisse gli accordi di Helsinki per fissare in maniera definitiva le acquisizioni territoriali seguite alla seconda guerra mondiale, ma in tal modo si assunse anche determinati impegni nel campo dei diritti dell’uomo, e così offrì delle salde basi al movimento in difesa dei diritti dell’uomo. Altra cosa, certo, è che tra gli impegni e gli adempimenti nel nostro paese c’è sempre stata un’immensa distanza.
Del resto, la dichiarazione firmata dai due primati non è certo paragonabile agli accordi di Helsinki: nella sostanza, si limita a testimoniare delle buone intenzioni e non implica nessun impegno concreto. E se anche lo implicasse, nella storia recente sono forse pochi gli accordi rispettati solo nella parte che risultava vantaggiosa? Questo documento non è una garanzia, ma un precedente molto importante. E testimonia con chiarezza che un orgoglioso autoisolamento non è la soluzione, non può durare.
Negli ultimi anni fra i cittadini ortodossi in Russia si è diffusa una particolare «psicologia da ghetto».

Nel Medioevo si chiamavano «ghetti» i quartieri dov’erano costretti a vivere gli ebrei. Non erano cintati di filo spinato (nel Medioevo non sarebbe stato pensabile), si poteva uscire dai loro confini, ma gli abitanti facevano di tutto per evitarlo. Essi sentivano che il mondo al di là delle mura a loro familiari era estraneo e ostile, e quindi era meglio averci a che fare il meno possibile. Meglio vivere nella povertà e allo stretto, ma in relativa sicurezza, fra la propria gente… E all’interno del ghetto nasceva inevitabilmente una propria mitologia, nella povertà e nelle ristrettezze ci si consolava al pensiero della propria superiorità spirituale.
E quando le porte del ghetto si aprivano, di certo non tutti gli abitanti si affrettavano a uscire incontro al vasto mondo, perché si erano ormai abituati a un’esistenza cadenzata da uno spazio ristretto e da regole ben note.
Molti ortodossi russi subiscono il fascino di questo ghetto. Non solo la chiesa, ma anche tutto il resto, fin dalla nascita: l’asilo ortodosso, e poi la scuola e l’università ortodossa, un lavoro ortodosso e il canale televisivo ortodosso, e possibilmente anche cibi ortodossi per cena; questo è l’ideale, oggi del resto pienamente realizzabile. In questa visione del mondo, i cristiani di altre tradizioni e denominazioni sono pericolosi e fanno paura, non tanto per le loro idee eretiche (sono ben pochi coloro che si raccapezzano in queste sottigliezze teologiche), quanto per il fatto stesso di esistere.

L’incontro a L’Avana difficilmente potrà arrestare questa tendenza o cambiare il modo di pensare di quelli che la condividono. Ma testimonia chiaramente che questa non è l’unica via possibile per gli ortodossi. Mentre tutto quello che si è andati dicendo negli ultimi anni dello splendore e grandezza del mondo russo doveva servire, non da ultimo, a metterlo a confronto con il resto dell’umanità.
Un avvicinamento tra cattolici e ortodossi sarà certamente un processo molto lungo, complesso e difficile.
Su di esso influiranno sia gli avvenimenti interni a ciascuna confessione, sia la politica mondiale, sia anche intrighi di ogni genere. Probabilmente all’attuale generazione di vescovi non sarà dato di vedere dei risultati sostanziali di questo avvenimento. Ma la politica ecclesiale si misura sulla lunga distanza.
Oggi in ogni caso ci è stata mostrata con chiarezza una cosa: non c’è nessun bisogno di rinserrarsi nel nostro piccolo angusto ghetto, la vita cristiana esiste anche al di là dei suoi confini, e quindi possiamo e dobbiamo superarli, per entrare in dialogo con il mondo circostante. E, nella nostra attuale situazione, questa non è una cosa da poco.

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Andrej Desnickij

Biblista, traduttore, pubblicista, scrittore, dottore di ricerca in Lettere. Dal 1994 lavora all’Istituto di Studi orientali presso l’Accademia russa delle Scienze.

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