23 Marzo 2018

Come una macina al collo

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

Chiedo scusa anticipatamente a quelli che potrei offendere, ma ora seguirà uno sproloquio un po’ dozzinale di tema pseudo-biblico.
La frase evangelica «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono» (Lc 17,1), e subito dopo quella sulla pietra da mulino, mi sono sempre sembrate tremendamente crudeli.
Se escludiamo i casi di corruzione consapevole e premeditata, di incitamento al male e così via, la maggioranza degli uomini in genere non spinge affatto il prossimo a peccare, ma vuole sinceramente «fare del proprio meglio». E allora perché minacciarla e promettere macine al collo?
Vuol dire che questo libro e «la sua religione» sono veramente così crudeli da soffocare qualsiasi bello slancio, e definiscono quanto è «puramente umano», «teneramente umano» con parole grevi, soffocanti, che sanno di incenso rancido?

Penso che non si tratti di rigorismo, nel Vangelo, ma del punto di riferimento. Qualsiasi tentativo di fare «del proprio meglio» può trasformarsi in scandalo se colui che «fa il bene» parte da sé stesso, dal proprio concetto di beneficio, senza cercare di vedere la vita in cui si inserisce con le proprie opere buone come un tutto, con la sua storia, i suoi avvenimenti. In altre parole, non si preoccupa di sforzare il cervello e pensare quanto il suo desiderio di «irrompere come la buona fata che rende gli altri felici» sia adeguato alla strada che sta percorrendo l’altro, che è radicalmente altro da lui, e se non distrugga invece ciò che costui stava cercando di costruire da sé, magari diversamente dal nostro progetto.
Non ricordo chi ha scritto che noi facciamo male agli altri soprattutto quando elargiamo loro la nostra felicità. Ma penso che il «guai a colui» di cui parla il Vangelo non sia assolutamente la punizione post mortem o anche in vita per le azioni malvagie. Nella logica biblica l’insensato, che non vuole discernere il senso delle proprie azioni, non è solo empio ma è profondamente infelice, com’è infelice chi «ha orecchie e non sente, chi ha occhi e non vede», chi tradisce la vita per le proprie fantasie.
E la pietra da mulino è la metafora dell’infelicità. Metafora arcaica, ma molto espressiva.