8 Dicembre 2017

Che ne facciamo del vecchio «Credere obbedire combattere»?

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

Che ne è della memoria? Che ce ne facciamo? Come la usiamo?
E già in questa serie di domande si pone un problema radicale: la domanda accorata e bruciante che la mia coscienza si pone di fronte alla memoria del passato (come mi interroga oggi il passato? Come contribuisce a formare il mio io?) si trasforma prima in una scettica e disimpegnata obiezione sulla sua utilità (con tutti problemi che abbiamo, perché mai dovremmo perdere tempo in questioni che in fondo sono soltanto accademiche) e diventa, alla fine, l’indecorosa domanda sul come strumentalizzarla.
Dal dramma della persona che cambia il mondo si passa al teatrino dei potenti che lasciano sempre tutto uguale.

Che ne è della memoria? Come guardo alla storia del soldato dell’Armata Rossa che ha liberato mezza Europa dal nazismo, ma nello stesso tempo vi ha portato i reparti della polizia politica sovietica che spedivano nel GULag una parte significativa di quella stessa mezza Europa?

Che ce ne facciamo della memoria?
Come disturba scoprire che nella stessa famiglia c’era una delle tante vittime del grande terrore degli anni Trenta, ma nello stesso tempo anche un carnefice e, se non proprio un carnefice, un delatore. E come disturba scoprire che in una nazione vittima delle repressioni sovietiche c’erano complici degli eccidi nazisti. Come si può riconciliare una nazione, darle la necessaria unità, di fronte a una divisione così dolorosa?
E così alla fine si arriva alla domanda che uno non vorrebbe mai sentire: non più che cosa mi dice la storia, come tiene desta la mia sete di senso e la questione del perché vivo, ma come la uso, come la trasformo in uno strumento per spegnere ogni domanda e farmi vivere tranquillo, abbarbicato alle mie intoccabili tradizioni, ai miei luminosi valori, al sacro suolo della mia patria? Tutte cose bellissime, che però troppo spesso nascondono soltanto il mio potere e la volontà di non mollarne un briciolo.

E allora avanti con le commemorazioni di Stalin che, anche se ha fatto milioni di morti, avrebbe reso grande la Russia. Avanti con le difficoltà a parlare della rivoluzione perché le tragedie che ha prodotto mal si adattano a un percorso ininterrotto di grandezza che vorrebbe riunire in unico quadro la santità degli inizi con la santità con la quale si spera di presentarsi alla fine della storia. E avanti anche con le discussioni astratte su tutti questi problemi, con i giudizi e le condanne che non costano niente perché in fondo non ci toccano e riguardano sempre e soltanto gli altri. Perché in fondo il muro contro muro della memoria o della sua cancellazione non riguarda mai nessuno di noi, si limita a riproporre uno scontro di principi astratti che in fondo riguardano sempre gli altri e non toccano mai la mia responsabilità personale.

E invece, che ne è della memoria nel resto dell’Europa? E in Germania, con tutto il suo nazismo? E in Italia con tutto il nostro fascismo? Storie diverse e pesi diversi, ma le domande sono le stesse.
Che ne è del nostro «Credere obbedire combattere»? E come interroga la sua storia il nostro oggi?
Questa scritta, ricordo di un triste passato, era rimasta da qualche parte in Italia anche fino a qualche tempo fa; poi, via via, era stata cancellata. Ne era rimasta, pare, una sola, ancora leggibile a Bolzano, oltre tutto su un edificio pubblico, sul Palazzo degli Uffici Finanziari, finché l’amministrazione centrale aveva ridestato la memoria degli amministratori locali che si erano prontamente messi al lavoro arrivando finalmente a una soluzione che è stata messa in opera agli inizi di novembre: la scritta non è stata cancellata, ma ovviamente non è neppure stata lasciata intatta; al bassorilievo col Duce a cavallo, nell’atto del saluto romano, e col motto fascista «Credere obbedire combattere» è stata sovrapposta con una luce led una scritta che riproduce una frase di Hannah Arendt, la famosa studiosa del totalitarismo: «Nessuno ha il diritto di obbedire».

La misura è stata variamente commentata in Italia; c’è chi ha detto che è la solita soluzione all’italiana che salva capra e cavoli (monumento fascista e giudizio antifascista), c’è chi ha detto che sarebbe un attacco all’identità italiana e chi si è lamentato dicendo che forse sarebbe meglio pensare alle ideologie tuttora dominanti invece di prendersela con quelle morte e defunte. Ma c’è anche chi, più seriamente, continua a chiedersi come giudicare la storia senza cancellarla, finendo poi, magari, col rimuoverla.
Quest’ultima osservazione ha indubbiamente più ragioni di tutte le altre, ma non ci fa fare nessun passo avanti, perché non ci aiuta a uscire dal muro contro muro delle astrazioni e nello stesso tempo ci fa perdere di vista la realtà e la sua profondità, mentre la soluzione intelligentemente trovata a Bolzano ci può aiutare ad uscire dalle astrazioni e vale la pena di essere ripresa, come ha ben fatto il «Guardian» in questi giorni, per richiamare alla memoria qualcosa di cui ci eravamo dimenticati o neppure accorti.

Il centro della soluzione di Bolzano, che non distrugge il monumento ma non lo lascia ingiudicato, e così ci richiamerà per sempre a giudicare qualcosa di cui avremo sempre davanti i chiari contorni, è la frase di Hannah Arendt, con la genialità di un «nessuno ha il diritto di obbedire», che non si limita, come facciamo tutti normalmente, a dire che «nessuno è obbligato a obbedire».
Cosa succede, in effetti, quando si dice che nessuno è obbligato a obbedire?
Tutta l’enfasi è posta sul fatto che qualcuno si ritiene obbligato ad obbedire perché ci sarebbe qualcun altro la cui presunta legalità o onnipotenza sarebbero tali da obbligarlo, scusando così la sua reale complicità. Dopo di che, normalmente, ci si perde nella discussione sulla reale possibilità di contrapporsi efficacemente a un potere onnipotente, e la discussione finisce sempre per riguardare il potere, e mai il mio io.
Ma se il mio io scompare, sono sconfitto prima ancora di lottare, perché in questo modo neppure i carnefici sono più messi di fronte alla realtà del male compiuto e della loro responsabilità: cosa potevano fare di fronte a un potere che li obbligava con una forza bruta invincibile o con la forza di una propaganda che faceva perdere i contorni della realtà?

La frase della Arendt, invece, è molto più esigente perché si interroga sul diritto che ciascuno di noi ha di agire in un modo piuttosto che in un altro e mette dunque ciascuno di noi di fronte alla propria responsabilità; ciascuno di noi è posto di fronte ai propri diritti, a ciò che lo costituisce e non a ciò che gli viene concesso o a cui è obbligato da altri. Non è un’analisi dei pro e dei contro, del peso delle circostanze che potrebbero determinare le mie azioni in una direzione piuttosto che in un’altra e, in questo senso non è neppure un’analisi delle ragioni di una parte contro le ragioni dell’altra, ma è piuttosto la domanda su ciò che mi costituisce prima che si presenti qualsiasi calcolo e qualsiasi problema, e su ciò che dovrà o potrà restare di me dopo che avrò preso le mie decisioni.
Nessuno ha il diritto di rinunciare ad essere se stesso; nessuno ha il diritto di rinunciare a restare uomo, libero.
La questione della memoria, di ciò che resta nella storia, è innanzitutto una domanda sull’io.
È a partire da una domanda continuamente aperta sul mio diritto, sulla mia responsabilità, sul mio io e su ciò che lo rende tale, che potremo trovare le soluzioni ogni volta vive sulla questione della memoria di esseri realmente vivi.